giovedì 11 luglio 2013
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Il tempo passato vive nel tempo presente. E l’origine non è il punto morto del tempo, ma la parte dimenticata del presente. Questa la prima appercezione di fronte all’opera di Sebastião Salgado, non solo Genesi, dove si manifesta una genesi perdurante, quel principio creaturale inestinguibile, incancellabile in virtù della forza graziante e generante della vita, del suo segreto principio. Ma in tutta la sua opera: i migranti che camminano o viaggiano per sfuggire a persecuzioni, quelli che inseguono un sogno di salvezza che si chiama pane, acqua, lavoro, e cadono per strada, questa moltitudine di uomini sofferenti attestano nelle fotografie di Salgado il persistere della vita nonostante tutto. La forza di denuncia della sua opera deve la sua efficacia all’assenza di rabbia, all’assoluta mancanza di compiacimento del macabro, e alla presenza dominante di un senso francescano di amore. Il suo obiettivo puntato sul migrante lo accarezza, per salvarlo almeno nella retina: ora, ora che qualcosa di irrevocabile è accaduto nella coscienza dell’uomo d’oggi, dopo la straordinaria visita di Papa Francesco a Lampedusa, lo comprenderemo ancora più profondamente. Salgado dichiara di avere un occhio non polemistico e nemmeno antropologico, ma giornalistico. Il suo giornalismo è quello della cronaca fissata e illuminata, della realtà che si fa narrazione: giornalistico qui è quasi sinonimo di neorealistico, nel senso della grande epopea di De Sica e Rossellini e di certo cinema emergente nel mondo arabo. Internazionale la sua cifra, all’altezza del cinema come impianto narrativo, e inscindibile dalle maggiori esperienze dell’arte contemporanea, non limitandoci alla fotografia, ma all’arte nel complesso, inclusa land art e l’ombra dei grandi informali. Di brasiliano, la cifra più particolare della letteratura maggiore di quel paese, la profonda poesia epica dei narratori, Guimaraes Rosa, Amado, Olinto. E, al cuore di tutto, la capacità di creare visioni dal volto fenomenico del mondo.«L’uomo sta distruggendo il volto del mondo». È una sua frase. Possiamo ricreare questo volto, questa forma?«Abbiamo cominciato dall’origine a distruggere le forme del mondo, non è un fenomeno recente. Non si tratta di una realtà relegata a epoche o civiltà specifiche, ma di una costante umana, che vede l’uomo agire in modo spesso inconsapevole. Le faccio un esempio. Cinque, sei giorni fa sono tornato dall’Amazzonia, dove ho lavorato su un gruppo di indigeni. Questo gruppo, una cinquantina di persone, stava distruggendo 10 alberi per raccogliere il miele: un numero di alberi del tutto spropositato, rispetto alle esigenze di così pochi individui. Ma questi pochi uomini stavano cambiando il panorama della foresta. Esattamente come noi abbiamo fatto con il panorama del mondo. Questo per dire che l’uomo, dall’origine, opera in senso distruttivo, in differenti modi e tempi, in ogni civiltà…E ora che noi siamo al punto massimo della distruzione, direi al limite, dobbiamo non solo fermarci, ma recuperare. Non si sottolineerà mai abbastanza l’importanza di ricostruire ciò che abbiamo distrutto. C’è un elemento distruttivo nell’Homo Habilis, necessario a costruire, ma a cui subito deve subentrare un atteggiamento ricostituivo. Penso alla natura nel suo insieme, al potere enorme del mondo minerale, con i suoi vulcani e le forze incontenibili, ma anche al mondo vegetale, e alla sua importanza. Gli alberi sono la garanzia della nostra sopravvivenza. In fondo, noi facciamo parte del pianeta, e non siamo che una parte della natura: e dovremmo tenerne conto, senza abbandonarci a accelerazioni innaturali. Forse, qualche passo indietro ci permetterebbe di comprendere che anche noi facciamo parte di un tutto».Ma è ancora possibile restituire il suo volto al suo pianeta? Come ricreare forma senza rifare anima?«Noi possiamo rifare il volto della foresta e del mondo, di cui la foresta è, se non l’anima a cui lei allude, il polmone».Quindi il principio vitale e animante, anima in senso fisico.«Sì, e la cosa non è affatto impossibile. Parlo anche per esperienza personale».Si riferisce a quando lei e sua moglie decideste di ripopolare la grande foresta ereditata da suo padre?«Sì, e per essere preciso l’idea fu di mia moglie, Lèlia». Che ha un ruolo fondamentale nella sua vita…«Lèlia non è solo la curatrice delle mie mostre e dei miei libri, ma la mia socia in tutto ciò che ho fatto e faccio nella mia vita. Lei mi disse: “Visto che ricordi di essere nato in un Paradiso, perché non provi a ricostituirlo?”. La storia…In due parole: nato in una immensa azienda agricola in Brasile, il cui territorio era coperto per circa il 60 per cento di foresta tropicale, quando negli anni Novanta io e i miei fratelli ereditammo la proprietà, lo spazio della foresta si era ridotto allo 0,5 per cento. Terra bruciata. Accolsi al volo la proposta di Lèlia. Per ripristinare l’ecosistema precedente a quella devastazione dovevamo piantare circa due milioni e mezzo di alberi di almeno 100 specie botaniche diverse. Con l’aiuto di amici, tanti viaggi, il sostegno di vari governi l’impresa è stata compiuta».Da qui, allora nasce l’idea di Genesi. «Sì, la ricostruzione di quella meraviglia ci spinse a cercare gli angoli del mondo in cui la sua meraviglia fosse ancora intatta, incontaminata. Il progetto era diverso dai precedenti: questa volta non avrei puntato l’obbiettivo sull’uomo, sulla lotta per la sopravvivenza sulla terra, ma sulla realtà meravigliosa della terra stessa. Che finora avevo fotografato come luogo di affanno, di pellegrinaggio, di dolore per l’uomo. Ora l’altra faccia, quella che invita a sperare. Cogliere con la macchina fotografica quella grande parte del pianeta che si presenta ecologicamente pura e, si potrebbe dire, ancora allo stato primordiale. Le meraviglie, come al tempo della Genesi. Da salvare. Sì, possiamo ridare bellezza al mondo».Che significa fotografare? Può il fotografo cogliere una relazione tra le cose che l’occhio comune non riconosce?«Da anni fotografo il mondo, e non saprei definire che cosa significa. Ho seguito una spinta, presto, da giovane. Fotografare per me ha subito significato viaggiare, cercare luoghi e trovare. L’occhio del fotografo coglie la realtà, e chi ne riceve l’immagine può scoprirla, vederla per la prima volta. Il fotografo è il primo a meravigliarsi: nel progetto Genesi per la prima volta ho fotografato un animale che non fosse l’uomo, e credo di avere colto qualche aspetto della natura che prima non conoscevo. Intendo della nostra relazione con il tutto».Migrazioni, poi Genesi: l’uomo che cammina e soffre, e la nascita del mondo. Due realtà in movimento. Perché la sua Genesi mostra che il principio non è finito, la genesi è presente, seppure nascosta, invisibile a occhio  nudo ( a occhio non fotografico, non d’artista), ma incessante. Ciò che perdura non cessa d’essere. «Nel primo ciclo seguivo l’uomo, la sua ricerca continua di una terra. Nel secondo la terra, nei luoghi dove la bellezza è incontaminata, dove l’uomo può ancora stupirsi. Si tratta di due parti della stessa realtà. L’uomo che soffre per sopravvivere ha bisogno che il pianeta custodisca ancora meraviglie». Sempre in viaggio, sulle tracce dell’uomo e alla ricerca dei luoghi. Adesso, ci provi, mi risponda al volo (n.d.a.: siamo al telefono): tra le mille strade, le mille avventure, c’è un viaggio che adesso, in questo istante, parlando con me, per primo le viene in mente?«Certo, tutti, ma rispondendo alla sua richiesta, al volo, ecco adesso, ma dico adesso e a lei ora,  penso alle lunghissime traversate in Etiopia, due mesi di cammino incessante. Mi pareva di ripercorrere i passi degli uomini, di tutti gli uomini, dell’uomo. Come…come…un  lungo viaggio nell’Antico Testamento».
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