giovedì 7 giugno 2018
Pochi giorni al via di un torneo ottenuto con ogni mezzo da uno Stato in cui, dal doping agli appalti truccati per gli stadi, il malaffare fa regolarmente da cornice ai grandi eventi sportivi
La Zenit Arena, lo stadio di San Pietroburgo. Sotto, Vladimir Putin

La Zenit Arena, lo stadio di San Pietroburgo. Sotto, Vladimir Putin

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Ogni “maledetto” quadriennio... Ci risiamo, giovedì 14 giugno, Russia-Arabia Saudita, calcio d’inizio dei Mondiali. Ma il calcio ormai è la cornice, il quadro è lo showbusiness, con relazioni assai pericolose. A maggior ragione a Russia 2018, dove le truppe cammellate dello “zar” Vladimir Putin hanno studiato e oleato tutto nel dettaglio, fin dal 2011. L’anno della storica doppia assegnazione: alla grande Russia a tutto gas e all’esotico Qatar degli emiri, nel 2022. Un’anomalia che scatenò molti sussurri e poche grida. Una sbornia di potere, quella esercitata dell’ex monarca della Fifa Sepp Blatter che, nel maggio del 2011, per onorare degnamente una rielezione al vertice – quasi scontata – del governo mondiale del football si era concesso una vodka siberiana e poi un tackle nel deserto. Il 29 maggio 2015 Blatter venne rieletto presidente Fifa ma il 2 giugno annunciava le dimissioni, abdicando dopo diciassette anni al trono sul quale ora siede Gianni Infantino. L’accusa a Blatter era di corruzione: un pagamento di 2 milioni di euro a favore dell’allora presidente della Uefa Michel Platini per lavori svolti tra il 1998-2002. Condannati entrambi a una squalifica di otto anni (ridotta a sei), ma è notizia di questi giorni lo scagionamento di Platini da parte della magistratura svizzera che ha archiviato le accuse di corruzione sul suo conto. Ma accordi sottobanco e corrutele hanno portato al trionfo della Russia che nella corsa al Mondiale del 2018 sbarrò il cammino all’Inghilterra per poi sbaragliare le candidature congiunte di Spagna-Portogallo e Paesi Bassi-Belgio.

«Quando c’è un capo di Stato forte che può prendere decisioni autonomamente come potrà fare Putin per i Mondiali del 2018, è più facile per noi organizzatori. Meno democrazia a volte è meglio per organizzare una Coppa del Mondo. Dirò qualcosa di pazzesco, ma è così». Pazzesco è che l’uomo che pronunciò queste parole all’indomani della scelta di Russia 2018 fosse il braccio destro di Blatter, l’altro epurato, l’ex vicepresidente Fifa Jérôme Valcke. Nomi, fatti, misfatti e aneddoti riportati dal tandem dei giovani storici dello sport Riccardo Brizzi e Nicola Sbetti nel loro dotto saggio Storia della Coppa del Mondo di calcio (19302018). Politica, sport, globalizzazione.( Le Monnier, pagine 262, euro 16,00). Brizzi e Sbetti rinfrescano quelle memorie di cuoio un po’ scucito ricordando che il Cremlino ha usato il calcio e lo sport in maniera strategica «per rispondere a tre esigenze primarie: rafforzare l’immagine internazionale della Russia, definire la priorità dello sviluppo regionale, e infine mantenere il sostegno sia delle élite politi- co-economiche – in particolare dei cosiddetti oligarchi – sia delle masse». Come sotto il fascismo Benito Mussolini nominò Leandro Arpinati supervisore del pallone di regime, così ha fatto Putin piazzando al centro del villaggio olimpico il fido ministro dello Sport Vitalij Mutko. Un lavoro diplomatico di stampo quasi sovietico, abbinato all’immenso mazzettificio moscovita- sanpietroburghese ha generato una macchina da guerra, capace di far fuori tutti i nemici per conquistare 25 eventi internazionali. Imperialismo sportivo: su suolo russo si sono svolti i Mondiali di atletica, nuoto e hockey su ghiaccio. Vetta olimpica scalata con i Giochi invernali di Soci 2014. Lo stadio di Soci ora verrà riutilizzato, per ragioni che vanno al di là del sfatto sportivo. Come spiegano Brizzi e Sbetti: «La scelta di Soci, situata nel cuore del Caucaso a pochi chilometri dagli Stati cuscinetto dell’Ossezia e dell’Abcasia che Mosca ha sostenuto nella guerra alla Georgia del 2008, sembra chiaramente influenzata da ragioni di natura geopolitica».

La geopolitica, materia a piacere di Putin che ha schierato la sue armate a presidiare lo stadio di Kaliningrad, l’exclave russa tra Polonia e Lituania. A Soci e Kaliningrad, avamposti del putinismo assoluto, si aggiungono gli impianti delle altre nove città di Russia 2018: i due stadi di Mosca e quelli quasi ignoti o remoti di Nižnij Novgorod, Kazan’, Samara, Saransk, Volgograd (l’ex Stalingrado), Rostov sul Don ed Ekaterinburg. La grande ciliegina sulla torta gigante, come il gigantismo degli eventi sportivi del Terzo millennio, è la Zenit Arena di San Pietroburgo. L’ex casa di Roberto Mancini (la sua ultima panchina è stata lo Zenit) è costata quasi un decimo della spesa complessiva del Mondiale che si attesta intorno ai 15 miliardi di euro. Cinque miliardi più di Brasile 2014. Soldi in parte arrivati dai tesori privati degli oligarchi russi itineranti, come il “londinese” Roman Abramovich, il padre patron del Chelsea. Circa un miliardo di euro sono stati polverizzati per mettere in piedi questa fabbrica russa di “sanpietro”. Per portarlo a termine ci sono voluti centinaia di moderni schiavi dei cantieri da ultimo stadio, molti dei quali forniti dalla Nord Corea. Dal rapporto di una ong umanitaria si è scoperto che gli operai asiatici venivano sottopagati: mensili da 100 dollari – per oltre 15 ore di lavoro quotidiano – di cui almeno il 50% sono stati riversati nelle casse dell’erario di Kim Jongun. Uno dei tanti scandali denunciati, insabbiati, poi esplosi a scoppio ritardato.

Come il “Doping di Stato” emerso già nel 2014 con un documentario e ritirato fuori con la spiata dei coniugi Stepanov all’Agenzia mondiale antidoping alla vigilia dei Giochi di Rio 2016. Nel laboratorio antidoping di Soci il dottor Grigorij Rodcenkov ha visto cose che noi umani non possiamo immaginare: ha denunciato e adesso vive sotto protezione negli Stati Uniti. Questo è il “modulo” Putin, un gioco al massacro contro i nemici della legalità, in cui la po-litica, e la mafia, è da sempre ovunque, pallone compreso. Uno scenario da Anime morte, dove per la pubblica ottusità Gogol’ potrebbe essere il nomignolo di un bomber caucasico. I mondiali dell’omertà e dei silenzi comprati cominciano tra una settimana esatta al Lužniki Stadium di Mosca (81mila posti, ospiterà anche la finale). Su il sipario su quella che Brizzi e Sbetti battezzano anche come «una delle edizioni più politicizzate della storia dei Mondiali ». Che sarà l’edizione più spettacolare non è dato sapere. L’unica cosa certa sarà la prima volta, dopo 60 anni, in cui la nostra Nazionale starà a guardare quel che si spera sia soltanto una festa del calcio. Una festa alla quale prima o poi verremmo riammessi, e nell’attesa ci affidiamo alle parole di un vero grande russo, Lev Tolstoj: «Non c’è nulla di più forte di quei due combattenti là: tempo e pazienza».

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