mercoledì 9 novembre 2016
Tensione nella partita tra la squadra locale e il Koa Bosco, promossa dal giovane parroco Roberto Meduri per favorire l'integrazione dei giovani africani che vivono nella baraccopoli di San Ferdinando
I giocatori del Koa Bosco

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La tensione tra immigrati e italiani non si ferma neanche davanti al calcio. Soprattutto in territori difficili come San Ferdinando, paese della Piana di Gioia Tauro con il comune sciolto per infiltrazione della ’ndrangheta. Campionato di seconda categoria, in calendario la partita tra il Rosarno e il Koa Bosco, la squadra composta di migranti africani che vivono nella tendopoli-baraccopoli, un ghetto con quasi mille lavoratori immigrati. Sfruttati e emarginati.


Per loro, per tentare un cammino di riscatto e integrazione, don Roberto Meduri, giovane parroco al Bosco di Rosarno, ha “inventato” la squadra di calcio. Si comincia nel 2013 con la partecipazione al campionato di terza categoria, accolta con curiosità e anche con simpatia dai locali. «Quando il calcio fa miracoli: a Rosarno la gente tifa per la squadra dei neri», titolava un nostro articolo di presentazione. E i ragazzi africani, tra gli applausi, vincono il campionato e vengono promossi in seconda categoria. Ma l’anno scorso l’aria cambia, in alcune trasferte vengono insultati, in campo e fuori ci sono provocazioni e violenze, anche contro il pulmino che don Roberto usa per accompagnarli. È ancora aperta la ferita per i fatti del 2010, le violenze, anche mafiose, sui migranti e la loro dura reazione. Campionato difficile, ma i giovani della tendopoli riescono a evitare la retrocessione. Quest’anno comincia bene, sempre tra i primi tre in classifica ma il clima peggiora.


Nel paese lo slogan è «prima gli italiani e poi gli africani». La crisi economica incattivisce e c’è chi soffia sul fuoco, con speculazioni politiche e mafiose, tirando in ballo anche la squadra di calcio. Così la scorsa settimana sono cominciate a girare minacce, provocazioni, proprio in vista della partita di domenica. Segnali concreti. Allo stadio di San Ferdinando c’erano due auto dei carabinieri. Non è certo bello vedere una partita blindata anche tra i dilettanti ma, come ci dice più tardi un ufficiale, «dovevamo esserci, la prevenzione ha funzionato». Almeno fuori dal rettangolo di gioco. Perché invece sul terreno la tensione è evidente, soprattutto tra i rosarnesi, peraltro primi in classifica, al punto che il loro stesso portiere deve urlare «ragazzi calma, stiamo giocando a pallone». Ma i falli fioccano e i ragazzi africani cominciano a reagire, così dagli spalti gli amici che li hanno accompagnati lanciano l’invito in italiano e in francese. «Stai calmo, non parlare. Devi giocare. Il faut jouer».

I locali sono più smaliziati e a ogni fallo degli africani restano a terra e montano le proteste della panchina. Anche entrando in campo, senza che l’arbitro riesca a calmare gli animi. Non mancano spintoni e accenni di rissa. Così dopo alcuni gol falliti dal Koa Bosco a segnare è il Rosarno. Seguono invasione di campo e sfottò a profusione.
Alla sosta del primo tempo ancora tensioni. Negli spogliatoi don Roberto prova a calmare i suoi ragazzi. «Dovete capire che la squadra serve per avere lavoro e integrazione. È un progetto che è utile a tanti. Se accettate le provocazioni cade tutto». Ma nel secondo tempo la musica non cambia, fino a una doppia espulsione. Il risultato resta immutato (1-0) e al triplice fischio i giocatori e soprattutto la panchina del Rosarno esplode in un’esultanza che va ben oltre le regole del fair play. E mentre i tifosi continuano a festeggiare, quelli del Koa Bosco riprendono le biciclette. Si torna a casa. Anzi, alle baracche del ghetto.

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