giovedì 13 febbraio 2014
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Era destino che il “Bell’Antonio” del calcio italiano, Antonio Ca­brini, finisse con il fare il beato tra le donne: dal maggio 2012, infatti, è il commissario tecnico della Nazionale italiana femmi­nile di calcio. Una sfida per il 56enne Cabrini, più improba di quella pro­vata da ct della Siria (dal 2007 al 2008), per­ché mentre nel resto del mondo il “calcio ro­sa” è in ascesa, da noi stenta ancora a de­collare. «È un problema di mentalità – spiega Ca­brini –, di cultura e del forte retaggio ma­schilista che paghiamo per via della nostra tradizione. I genitori nelle partite dei ragaz­zi spesso sono l’elemento negativo sugli spalti, in quelle femminili nemmeno ci ar­rivano: convincono le figlie a smettere an­cor prima di cominciare. Se mia figlia mi a­vesse chiesto di giocare a calcio? Non avrei avuto problemi, anzi l’avrei incoraggiata a farlo...». È lo sfogo del professionista con alle spalle 352 partite in Serie A, del pelide guerriero della fascia sinistra con tredici stagioni di Juventus - con cui ha vinto tutto - e del ter­zino più forte del pianeta al Mundial di Spa­gna ’82, conquistato con l’Italia di Bearzot. Cabrini è uno allenato a tutto ed avvezzo a pensare in grande, ma qui bisogna fare i conti con la realtà di un movimento che sopravvive ed è in netto ritardo rispet­to agli altri Paesi. «Gli Stati Uniti so­no all’avanguardia, così come gran parte d’Europa ci sopravanza semplice­mente perché si fan­no degli investi­menti. In Inghilter­ra so che stanno a­prendo 35 scuole calcio federali di cal­cio femminile e nella piccola Svizzera ce ne so­no almeno 7-8 nuove di zec­ca. Noi all’ultimo Europeo ci sia­mo piazzati tra le prime otto e con­tro la corazzata Germania, che poi ha vinto il titolo, siamo usciti a testa alta perdendo di misura, 1-0, ai quarti di finale. Per chi non lo sapesse le calciatri­ci tedesche tesserate sono oltre 1 milione, da noi arriviamo appena a 10mila». Bastano questi dati per capire il grande gap che non può essere certo colmato da un ex fuoriclasse del calcio azzurro e dalle sue vo­lenterose ragazze della Nazionale. «In Italia gli sponsor latitano, la Premier e la Bunde­sliga da anni accanto alla prima squadra ma­schile hanno costituito quella femminile con campionati altamente competitivi. La na­zionale spagnola è composta per 8 undice­simi da ragazze del Barcellona e queste fin da bambine imparano il “tiki-taka” alla stre­gua delle formazioni giovanili dei ragazzini della cantera. Da noi quando vedremo una Juventus femminile che si allena a Vinovo e che può competere in Europa?».Insomma, se la Serie A maschile fa sempre più fatica a reggere il confronto con il calcio europeo, quello femminile è quasi costret­to a fare i miracoli. «L’unica grande risorsa è la passione e lo spirito di sacrificio delle mie ragazze che sono encomiabili. Giocano e pensano da professioniste, ma il calcio femminile italiano è puro dilettantismo. Un buon 85% delle azzurre studiano e lavorano e spesso per rispondere a u­na mia convocazione sono costret­te a prendere permessi dall’ufficio o, magari, dobbiamo intervenire con la Federazione per esentarle dalle lezioni universitarie obbliga­torie». Sono quelle stesse ragazze che nel­le rispettive società in cui milita­no, spesso vengono pagate con un rimborso spese e solo nel caso dei “top club” (qui si chiamano Brescia, Torres, Bardolino e Tavagnacco) arri­vano ad ingaggi “stratosferici” da mille euro e spiccioli. Come siamo distanti dal mezzo milione di dollari che la brasiliana Marta Vieira da Silva, la “Pelè del calcio ro­sa” percepisce dai munifici americani del Western New York Flash. «Eppure noi – continua Cabrini –, dalla Pa­trizia Panico che a 38 anni è un esempio per tutte, fino alla più giovane, Nenè (“black­italian” 100%), abbiamo dei talenti su cui puntare per il futuro, ma ci serve una gros­sa mano, prima di tutto dalle istituzioni. Con l’Under 17 siamo qualificati per i Mondiali di Costarica 2014, ma se le ragazze comin­ciassero a giocare a pallone in età scolasti­ca, la selezione dell’Under 15 non sarebbe più un’utopia, ma un progetto realizzabile in tempi rapidi». Ricapitolando, il vuoto attuale è generato fondamentalmente dall’assenza delle tre “s”: scuola, sponsor e società professionistiche. «No, c’è un quarto punto, l’oscuramento da parte dei media – spiega il ct –. Agli Europei né la Rai, né le tv private hanno trasmesso le nostre partite e in tribuna stampa non c’e­ra un inviato di giornale. Per farci pubblica­re un trafiletto prima del match con la Ger­mania abbiamo esercitato un pressing che neppure in campo...», commenta amaro Ca­brini che, però, non si arrende dinanzi al­l’indifferenza mediatica e tanto meno ri­spetto all’atteggiamento ostile riservatogli da certe “colleghe ct”. «L’indifferenza nasce dal fatto che il calcio da noi viene concepito come solo maschi­le. Il confronto in campo non può esistere: è provato che una nazionale femminile può giocarsela alla pari al massimo contro una formazione Allievi di un club di Serie A. È un fattore puramente fisiologico... Come mi hanno accolto le allenatrici di altre nazio­nali? In generale approcciano con aria da “saputelle” come a dire: va bene, sarai anche Cabrini il campione del mondo, ma non vor­rai mica spiegare a noi come si gioca a pal­lone? ». Il Bell’Antonio ci ride su e dà l’ultima ripas­sata alla tattica, perché oggi a Novara (ore 15) è tempo di match contro la Repubblica Ce­ca. «Ci giochiamo la qualificazione ai Mon­diali di Canada 2015. Siamo secondi nel gi­rone e, probabilmente, sarà decisivo lo scon­tro diretto di aprile contro la Spagna (il 5 a­prile a Vicenza) che ora è al comando. Le mie ragazze ce la metteranno tutta per cen­trare l’obiettivo, ma non mi stanco di ripe­terlo: il movimento crescerà e diventerà dav­vero forte, solo quando quest’Italia sarà più aperta mentalmente verso il calcio femmi­nile ».
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