domenica 21 novembre 2010
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La periferia sta tornando a diventare un "paesaggio" da raccontare per i nostri narratori "under 40": uno spazio corale dove poter trovare una verità delle storie che costruiscono la realtà. È una narrativa questa che trova i suoi spazi ideali nelle contaminazioni di una "periferia" percepita in modi diversi, che supera le convenzioni di una "narrativa da best-seller" che gioca su se stessa, con un eccesso di costruzione ad effetto, molto seriale, in linea con i sentimenti facili che chiede il mercato. Sono sentimenti difficili, complicati, se vogliamo anche disturbanti quelli che emergono da questo giro nelle periferie del primo decennio, quello degli "anni zero", molto diverso come atteggiamento da quello che avevano negli anni Cinquanta Pasolini per la periferia romana e Testori per quella milanese. Pasolini e Testori avevano assunto la periferia come "mito", emblema di una naturalità dei valori che contrastava con la lenta consegna ai valori del consumismo. I narratori di oggi invece la sentono come parte di sé, una questione di "natura", perché in periferia si è cresciuti o perché vi è una sorta di consonanza con questo mondo che tende ad essere o nascosto o anche raccontato solo nella dimensione dello stereotipo che accomuna i termini di "periferia" e di "degrado". Proprio raccontando la periferia milanese in Milanabad (Castelvecchi) lo scrittore Michele Monina, classe 1969, ci restituisce il suo romanzo più convincente, una storia di formazione "da strada", quella di Marco, sfrattato con la madre, e suo cugino Rabbia, metà milanese e metà egiziano, la loro adolescenza vissuta a tempo di rap, per raccontare la fugacità e il disagio che li circonda. Una periferia questa in cui è più facile l’integrazione, dove i bambini italiani giocano a pallacanestro con i loro compagni filippini, ad esempio. E dove la musica ha la sua importanza e determina anche il carattere agro del libro, al quale partecipano con versi e frammenti di testi, molti cantautori e cantautrici della nuova scena italiana da Caparezza a Francesco Renga, da Cristina Donà a Piotta, da Amir a L’Aura. Dice Monina: «Siccome la musica è parte integrante del mio mestiere, e il rap è un genere che ho sempre seguito, ho scelto di ambientare il tutto nella scena hip-hop milanese. Quando decidi di raccontare il mix "periferia" + "giovani" + "hip-hop" non può che venirne fuori una storia rabbiosa, credo».È sorprendente invece nel raccontare il senso dell’essere lasciati soli che si può respirare in un’altra periferia milanese, un narratore molto più giovane, che in quei condomini tutti uguali ci è cresciuto. Emmanuele Bianco è una delle uniche e vere sorprese di questa annata letteraria, ventisei anni, esordiente con Tiratori scelti, edito da Fandango. Lui racconta l’anima di un quartiere, i suoi personaggi, quella che Bianco definisce «la sua voce più intima, quella che non condanna e non assolve mai, ma ti racconta delle storie e talvolta ti mette nudo di fronte a te stesso», un quartiere di quelli venuti su per dare alloggio agli immigrati dal Meridione negli anni Sessanta. Aggiunge il giovane scrittore: «Credo che il centro del mio libro sia un atto d’amore verso un luogo, la periferia, e verso una voce, quella dei suoi abitanti, quasi mai presa in considerazione. Ho voluto conoscerli allo stato brado. Per ricercare, come dico nel libro, l’origine della realtà, prima che la realtà stessa. È facile parlare di disagio giovanile, degrado delle periferie. In questo momento, in Italia, il disagio è generazionale, al massimo personale. E il degrado delle periferie è il contrario del giardino leopardiano. Guardando dentro, si scopre il bello nel brutto. E comunque, fuori da quel luogo è anche peggio perché sei solo».Nella periferia si cela quindi la necessità di scoprire «l’origine della realtà». E questo è vero anche per una scrittrice, Antonella Lattanzi, che con Devozione (Einaudi) si conferma tra le voci più importanti della narrativa femminile di oggi. Nata a Bari nel 1979, vive a Roma. Con questo nuovo romanzo ci racconta una realtà inedita, quella del "ritorno" dell’eroina, come forma di dipendenza metaforica che è un po’ anche il male dei nostri giorni. Uno sguardo impietoso e partecipe alla nuova "marginalità" contraddistingue questa storia, tanto che Domenico Starnone, il suo maestro, ha detto: «Antonella Lattanzi sa raccontare come pochi il corpo degradato, il corpo innamorato. Ha scritto il romanzo struggente del desiderio di vita tradito dall’eroina». È stato lungo per la Lattanzi avvicinarsi a questa realtà e ci sono voluti anni di frequentazione degli ambienti raccontati, per dare una "voce" così viva ai suoi protagonisti. Dice infatti: «Per cinque anni mi sono finta un’eroinomane malata di epatite C: sono stata con loro, sono andata nei Sert, nelle comunità, a Villa Maraini, a Secondigliano, dove, al di fuori di ogni legalità, si vende l’eroina nelle "basi", per strada, davanti a tutti, ho passato con loro giorni e notti. Ho provato cos’è la discriminazione, ho sentito lo sguardo disgustato delle persone "sane", ho capito che un eroinomane è sempre solo, anche quando, fisicamente, è insieme a tanta gente». Una verità vissuta insieme a loro, gli emarginati, che ritorna a mostrarsi, anche se non fa più notizia come negli anni Settanta e Ottanta, un po’ come aveva fatto Testori con il Riboldi Gino in In exitu. La periferia mette in rilievo anche la precarietà della vita, come ci racconta Davide Musso, classe 1974, editor di Terre di Mezzo che per Gaffi ha pubblicato Vite di traverso, in cui racconta «sette storie sbagliate», nella quotidianità di una città in cui centro e periferia sembrano inequivocabilmente contaminati, quella, ad esempio, di Samir che, dopo una settimana a spaccarsi la schiena all’ortomercato, passa la domenica in balera, ma anche quella di Antonio che sta dietro le sbarre per colpa di una rapina andata fin troppo bene e di un complice con la lingua forse troppo lunga. È una periferia quella che viene raccontata oggi che ha bisogno, non solo di essere attraversata, ma anche "abitata" in vari modi dagli scrittori, perché lì ci vivono o ci hanno vissuto o perché la frequentano per lavoro. Con le sue Malastorie (Il Saggiatore), Piero Colaprico traccia il ritratto della "vita metropolitana" più pericolosa, nel corso degli ultimi venticinque anni, nella sua crudeltà, ma anche nel suo paesaggio di frontiera che si snoda. Cosimo Argentina,invece, nel suo recente romanzo, Vicolo dell’acciaio (Fandango) racconta, in un romanzo corale, la periferia delle famiglie operaie al Sud, nel condominio di via Calabria, a Taranto, a due passi dall’Ilva, il più grande impianto siderurgico d’Europa, affrontando il tema del lavoro e della malattia. Argentina è uno che crede che «il vero scrittore non dovrebbe studiare a tavolino le sue mosse perché questo passa il convento». E conferma che è necessaria «un’alleanza tra i personaggi e il creatore di storie, un’alleanza che funziona solo se il narratore si mette in gioco e in discussione fino alla nudità. Anche se questo passa attraverso i fumi dell’Ilva e le coste inquinate».
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