mercoledì 28 marzo 2018
Per il saggista Paul Lakeland, nel suo nuovo lavoro, “la scrittura, come la fede, richiede l'immaginazione per appropriarsi di un linguaggio che non esaurisce mai ciò che c'è da conoscere”
C'è il respiro dell'Assoluto anche in un romanzo
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Il titolo è indubbiamente intrigante: The wounded angel (“L’angelo ferito”) si rifà all’omonimo quadro di Hugo Simberg, artista finlandese a cavallo tra ’800 e ’900, raffigurato per la cattedrale luterana di Tampere. La dicitura è azzeccata nel riassumere il contenuto del saggio di Paul Lakeland, da poco pubblicato negli Usa da Liturgical Press, dedicato al rapporto tra romanzo e immaginazione religiosa. Lakeland, docente di Catholic studies alla Fairfield University, un’istituzione accademica dei gesuiti nel Connecticut, spiega in questa intervista la sua visione della relazione tra romanzo e domanda religiosa.

Nel suo libro sono frequenti i richiami al fatto che la letteratura abbia in sé un “di più” che rimanda all’Assoluto, tanto più che – se anche si guarda alle religioni monoteistiche – la rivelazione divina avviene tramite un libro. Cosa significa questo per l’esperienza della fede cristiana?

«Ciò che la letteratura e la fede hanno in comune è che entrambe richiedono l’immaginazione per appropriarsi di un linguaggio che non esaurisce mai ciò che c’è da conoscere. Nella religione la pienezza della verità sta dietro il mistero oltre l’orizzonte, nella realtà del trascendente. In letteratura il significato (come dice Henry James) sfugge sempre alla completa comprensione del lettore o dello scrittore. La persona di fede risponde alla chiamata di Cristo come viene percepita nella preghiera e nella scrittura. Il lettore risponde ai segnali nel testo che invitano il lettore a costruire l’oggetto “estetico”. Se questo è corretto, è dunque possibile pensare sia alla fede che alla letteratura come vie di accesso al trascendente. La fede è sicuramente più consona all’idea di trascendenza, ma si corre il rischio di identificare la fede con le istituzioni religiose, i dogmi ed altro. La letteratura, per natura, non è dedita alla trascendenza».

Tra letteratura e domanda religiosa c’è un rapporto, anche misterioso, che salta spesso fuori…

«Il lettore coinvolto in una narrazione seria è in qualche modo almeno spinto verso la percezione che esiste qualcosa di più rispetto al vivere (e al morire?) e pure rispetto a quanto possiamo vedere, ascoltare, assaggiare e toccare. Così in letteratura possono esserci degli accenni alla trascendenza che si incontrano in base a quanto la nostra immaginazione mette in campo nell’interpretare quello che leggiamo, ovvero nella costruzione dell’oggetto estetico. Quello che la grande letteratura offre alla persona di fede è la possibilità di usare l’immaginazione di ciascuno per esplorare senza precondizioni o censure interne. All’immaginazione religiosa viene come data una sveglia nel leggere la letteratura. E al lettore di letteratura viene dato il permesso di immaginare un oltre».

«L’errore di molta della letteratura contemporanea è il fatto che non si pone questioni-limite, ad esempio nell’ambito del senso», si legge nel suo saggio. È una critica che riguarda tutti i romanzieri contemporanei? Oppure ve ne sono alcuni che secondo lei sono capaci di porre queste domande “quasi ultime”?

«La letteratura che non pone domande profonde, almeno implicitamente, non è veramente seria. Magari può essere davvero molto ben scritta, può essere realmente divertente, ma non spinge l’immagine più avanti. Del resto io ritengo che l’immaginazione umana è molto più importante delle nostre emozioni. È l’immaginazione che ci apre alla creatività. Ed è per questo che io non penso che ci debbano essere “buoni” scrittori ma un romanzo “serio” o “grande” (ammetto che non è una categoria molto chiara). Mi rendo conto che dicendo questo non illumino molto il lettore circa la complessità della condizione umana, ma invitare il lettore a pensare a un qualcosa di più quando si è davanti ad un testo solo ben scritto o divertente non è qualcosa che non abbia conseguenze serie. Per guardare ai nomi di oggi, penso che la maggior parte degli scrittori occidentali non arrivino a questo livello, tanto più nel romanzo poliziesco. Faccio un eccezione per il lavoro di Louise Penny [in italiano sono disponibili La via di casa e L’inganno della luce, entrambi per Piemme, ndr ] e l’americano Jim Harrison [molti i suoi titoli in italiano, già pubblicati da Dalai, ndr ]; indubbiamente ce ne sono anche altri. Se guardo all’Italia, Andrea Camilleri è uno scrittore di polizieschi che ha trasceso il suo genere e scrive quello che vorrei definire “romanzo serio”. Se devo poi fare un piccolo elenco di autori di questo genere (e ne potrei citare altri cinquanta senza problemi), citerei Cormac McCarhty, Toni Morrison, Colum McCann, Gloria Naylor, Rachel Cusk, Colm Toibin, Alice McDermott».

Nel suo saggio ritorna spesso la constatazione, che sa anche di denuncia, del fatto che religione e letteratura non sono più in dialogo…

«Di per sé il problema non è tanto questo, ma il fatto che le persone di fede non sono più di altre dedite alla grande letteratura e i soggetti della letteratura sono molto più spesso immunizzati contro quello che essi pensano siano gli effetti deleteri delle istituzioni religiose. Se c’è bisogno di un dialogo, esso riguarda i lettori, non i lavori. E dovrebbe essere un dialogo che esplora la relazione tra l’uso dell’immagine e l’atto di fede. Entrambi dovrebbero essere capaci di allargare orizzonti piuttosto che di chiuderli. Non credo in nessuno modo che uno scrittore dovrebbe perseguire un programma religioso, ma credo che se uno scrittore si impegna a scrivere seriamente, dovrebbe farlo per chiunque, per una persona laica o religiosa. In questo il mio punto di riferimento è Flannery O’Connor, che ammoniva contro 'la paccottiglia pietista' quando qualcuno vuole dire di voler scrivere un romanzo “cattolico”».

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