venerdì 4 novembre 2011
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Se per un punto Martin perse la cappa, se è vero che un minuscolo segno di punteggiatura si è dimostrato in grado di cambiare il destino di un uomo fino a spegnerne l’ambizione a diventare abate, cosa può fare un fiume dalla portata bizzarra che con i suoi meandri taglia in due un territorio? Può creare due mondi separati che si guardano con qualche sospetto, si sfidano, si arroccano ognuno attorno ai propri campanili secondo le migliori tradizioni italiane: Langhe da una parte, riva destra del Tanaro e Roero dall’altra, sponda sinistra. Siamo in Piemonte, nel cuore del Piemonte, poche decine di chilometri da Torino oltre Carmagnola, province di Cuneo e di Asti, 420 chilometri quadrati, 24 comuni, una capitale ad honorem che si chiama Bra, un nome che deriva da quello dei feudatari che hanno tenuto queste terre a partire dal XIV secolo, una radicata identità locale che affonda le radici nel remoto Medioevo, a prima dell’anno Mille: questo, signori, è il Roero. Già, l’identità: «Non è Langa, non è Monferrato; il Roero è un luogo a sé». Roero slow, perché qui le colline sono dolci e invitano a gustarne le distese senza fretta, senza l’ossessione dell’orologio e l’assillo del rientro in città. Roero di colline coltivate a vigna, ma non solo. Certo però che senza la vigna il Roero non esisterebbe, ed è una questione di cultura e passione, quasi di scelta ideologica. Sul volume dedi al Piemonte de Le cento città d’Italia edito da Sonzogno a fine Ottocento si legge a proposito della gente del capoluogo (solo loro?): «La passione più accentuata dei Braidesi è per le vigne. Ogni famiglia per poco che si trovi agiata ha la sua vigna, ed anche quando gli affari non vanno bene, è sempre la proprietà di cui si disfa più a malincuore. Tutte queste vigne sono di estensione limitatissima, ma ciascuna ha la sua piccola abitazione (ciabot). Per questo le colline sono ripiene di villini che danno loro un’apparenza gaja e festevole». Su queste medesime colline oggi nasce il vino simbolo del Roero, il bianco Arneis, un tempo "arnese", vino da quattro soldi figlio di una agricoltura povera di pura sussistenza, ora diventato emblema di una enologia che sfida la concorrenza blasonata. Quella delle Langhe, in altre parole.Tutto qui il Roero? Solo filari, cantine, enoteche, distillerie, villaggi, campanili, torri? Errore, perché se è vero che le colline sono dolci, questa terra da sempre di transito e crocevia di strade diverse si svela improvvisamente aspra, bizzarra e corrugata quando ti avvicini alle cosiddette "rocche", fenditure formatesi nel terreno all’epoca della glaciazioni, stranezze morfologiche dovute all’azione sinergica della terra che si spaccava e dell’acqua che dilavava, straordinario paradiso di contrasti in cui si passa in poche centinaia di metri dalla sabbia alla palude attraverso la vigna e le distese boschive. Qui un tempo c’era il mare, e i fossili che affiorano dal suolo ne sono la muta ma eloquente testimonianza. Il territorio delle rocche si stende per una trentina di chilometri da Pocapaglia a Cisterna d’Asti, trenta chilometri di pareti a picco e di pinnacoli, un labirinto di scoscendimenti, dirupi e precipizi, un vero e proprio museo a cielo aperto. Le rocche sono un relitto delle geologia, così come il grande bosco del Roero è un relitto della primigenia foresta padana che per i latini era la "Silva popularis". Il parco forestale al centro dell’altopiano boschivo (150 mila piante messe a dimora in dieci anni) è l’unico in Europa a trarre finanziamenti nientemeno che dall’immondizia. L’ingresso dell’area protetta è vicino ad una discarica, il consorzio che la gestisce destina al parco un tot per ogni chilogrammo di rifiuti smaltiti dall’azienda nettezza urbana di Alba e Bra. Paesaggio, vino, gastronomia di qualità sono tre carte che sapientemente giocate hanno fatto di questo territorio un’area che se da un lato non è immune dalla crisi generale dell’economia italiana di oggi, dall’altro può guardare con non celata sufficienza alla grande Torino che si raggiunge in mezzora di macchina ma che non attrae, non affascina. Anzi! Quando riesci ad entrare in confidenza con qualcuno, sottovoce te lo spiegherà: «Se l’industria di città ha il fiatone ci dispiace ma alla fine la cosa non ci riguarda, i problemi della Fiat non ci toccano, il nostro futuro non è nella catena di montaggio. Il benessere ce lo siamo costruiti con il vino e con una cucina di assoluta eccellenza che valorizza i prodotti nostrani. Abbiamo le ricchezze ambientali, i paesaggi da fiaba, i monumenti, i castelli». È quanto basta perché uomini e donne possano sentirsi veri signori a casa propria, gratificati da un calice di Arneis, stuzzicati da un fritto misto alla piemontese, un bollito con le salse, una tagliata di fassone, una robusta spolverata di tartufo su due uova al tegamino (che poi il Barbaresco va giù come manco te lo immagini), una bagna cauda che tutti quelli attorno allo stesso tavolo devono condividere. Perché l’aglio... Signori sono, quello del Roero. Aristocratici gentiluomini senza puzza al naso che vivono sobriamente slow come i fortunati titolari dei castelli d’antan, edifici storici ora mete affascinanti di un turismo colto, riflessivo, cosmopolita, sempre intelligente, tollerabile e rispettoso del contesto territoriale. Castelli e torri che non potevano mancare in questa che abbiamo detto essere terra di transito e quindi di conquista. L’elenco è corposo. Il maniero di Sommariva del Bosco è celato tra gli alberi secolari di un parco, quello di Sanfré risale al 1200, quello di Ceresole è seminascosto nel centro dell’abitato, quello di Pocapaglia ha subìto aggiunte e rifacimenti. Poi ci sono i castelli di Baldissero, Montaldo Roero, Monteu (qui si svernò il Barbarossa), Montà, Canale, Cisterna, Monticello (ospita gli eredi dei conti Roero), Pollenzo, Govone, Magliano Alfieri, Guarene. Al castello di Sommariva Perno conviene dedicare qualche riga. È uno dei più famosi perché ha ospitato Rosa Vercellana, sì, la Bela Rosin moglie morganatica di Vittorio Emanuele II, diventata contessa di Mirafiori e Fontanafredda. Era un castello di difesa poi trasformato in elegante palazzo nobiliare. Nelle sue stanze i cimeli dell’unificazione d’Italia. Ricordarlo nella ricorrenza dei 150 anni significa legare il Roero di ieri e quello di oggi ai destini del Paese, perché anche di qui è passata la storia.
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