sabato 11 luglio 2015
​Dalle piante ai mammiferi le forme degli automi tendono a riprodurre quelle della natura, spesso impeccabili dal punto di vista funzionale. Con un'incognita: dove può arrivare l'imitazione dell'uomo?
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Mosche, ragni, capre, cavallette, perfino alberi e batteri; e, naturalmente, uomini. Le forme che la tecnologia sta dando ai robot tendono dichiaratamente ad assomigliare a quelle affinate dalla natura in milioni di anni di evoluzione.

Un po’ per gusto estetico, un po’ per esigenze funzionali, le strutture degli organismi viventi sono un modello cui gli ingegneri robotici guardano con interesse, tanto da derivarne un intero zoo di automi adatti a svolgere al meglio le funzioni più varie. Come illustrano Roberto Cingolani e Giorgio Metta nel loro Umani e umanoidi. Vivere con i robot (Il Mulino, pagine 180, euro 15,00), per operare efficacemente in contesti inaccessibili all’uomo servono macchinari estremamente raffinati, tanto da costituire un vero e proprio “salto evolutivo” rispetto ai robot già diffusi su scala industriale, come quelli delle catene di montaggio delle fabbriche.

Dal punto di vista funzionale si va dai quadrupedi “caprini” capaci di muoversi tra le macerie di un terremoto agli insettoidi in grado di volare e filmare attraverso i più stretti passaggi oppure là dove è meglio vedere senza essere visti; per esempio, in contesti bellici e investigativi. Anche il mondo vegetale rappresenta un modello, dalle foglie alle radici: delle prime si tenta di ricreare il meccanismo di produzione dell’energia, delle seconde la capacità di svilupparsi nella direzione desiderata grazie al riconoscimento della presenza di determinate sostanze.

Di virus e batteri si replica la capacità di operare su scala molecolare, mentre dei microorganismi si imitano gli organi sensoriali e di movimento (ciglia, peduncoli, rotori) su scale microscopiche. Ma, di tutti i viventi, il più affascinante e complesso da imitare è l’essere umano. L’androide è già una figura classica, entrata nell’immaginario soprattutto grazie al cinema: dalla sensuale donna robot di Metropolis di Fritz Lang (1927) all’ironico C-3PO di Guerre stellari di George Lucas (1977), dai replicanti in fuga di Blade runner di Ridley Scott (1982) al bambino robot di A.I. – Intelligenza artificiale di Steven Spielberg (2001), ma l’elenco potrebbe essere sterminato. Dagli studi hollywoodiani ai laboratori, un percorso di ricerca è quello che cerca di riprodurre nelle macchine l’aspetto esteriore dell’uomo; non necessariamente si tratta di robot complessi, anche se l’obiettivo è quello di ottenere androidi con i quali sia in qualche modo più facile interagire, più “empatici”, e che potrebbero arrivare ad accompagnare gli uomini nella loro vita quotidiana, per esempio come domestici o come badanti. 

Più strettamente funzionale è la ricerca che mira a riprodurre nel miglior dettaglio possibile il funzionamento del corpo umano, in particolare degli arti; esistono mani robotiche in grado di compiere movimenti complessi e delicati, e che in prospettiva dovrebbero diventare protesi attivate direttamente dagli impulsi nervosi delle persone amputate. Oppure promettente è la strada degli esoscheletri, strutture esterne che, fissate alle gambe, possono riportare in attività arti immobilizzati.

Ma la sfida più difficile, tanto affascinante quanto inquietante, è quella che mira a riprodurre la più alta delle funzioni del corpo umano: il pensiero. Il cinema, ancora una volta, ci ha già abituati all’idea di robot dotati non solo di intelletto, ma anche di sentimenti. E le “leggi della robotica” di Isaac Asimov hanno già ispirato un corposo dibattito tecnologico- filosofico. Per ora soltanto teorico: ma fino a quando?

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