venerdì 13 marzo 2020
In "Il bambino nascosto" Roberto Andò narra la coabitazione imprevista tra un maturo professore e il figlio decenne d’un camorrista. Una vicenda con valore d’apologo sullo sfondo di Napoli
Lo scrittore e regista Roberto Andò

Lo scrittore e regista Roberto Andò - Ansa

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La ricezione di un’opera, come ci ha dimostrato Hans Robert Jauss più di trent’anni fa, ha un ruolo importante nella determinazione dei suoi significati profondi. Dico questo perché mai mi sarei sognato di leggere il nuovo romanzo di Roberto Andò, Il bambino nascosto, a partire da una riflessione, per me quasi obbligata, sul concetto di autosegregazione: condizione inedita e provocata dalle contingenze epidemiche, se non pandemiche, in cui versa il Paese, in Sardegna ulteriormente coattive per via d’un draconiano decreto del governatore dell’isola a danno di tutti coloro approdati qui dal Continente, per i più diversi motivi, nelle due settimane precedenti il 9 marzo.

Di segregazione autoindotta parla infatti a lungo Andò nella prima parte di questo suo romanzo, anche perché è proprio questa coabitazione non prevista (e non voluta) tra i due protagonisti – un maturo professore di pianoforte al conservatorio San Pietro a Majella di Napoli, Gabriele Santoro, e il figlio decenne d’un camorrista che abita all’attico dello stesso palazzo, Ciro Acerno – a catalizzare un tipo di rapporto che ha a che fare con quello tra padre e figlio, che però in questo caso avrebbe risvolti – diciamo così – giudiziari di non poco conto (nel senso di vero e proprio sequestro di persona), poco importa se auspicato da un infante malcresciuto e borderline che ha, impresso in viso, una evidente, ineludibile, «implorazione d’aiuto». Non per niente, la vicenda acquisterà molto presto anche il valore d’un apologo sul rapporto tra Legge e Amore: e basterebbe, a questo proposito, citare il colloquio che Gabriele avrà col fratello magistrato Renato, durante il quale s’affacciano, paradigmaticamente, i nomi di Antigone e Creonte.

Ma andiamo con ordine. Come è stato possibile tutto ciò? Siamo nel quartiere di Forcella: il professor Santoro si sta facendo la barba, mentre recita a memoria, come ogni mattina, la poesia del giorno, quando il citofono squilla all’improvviso. È il postino che deve consegnargli un pacco. Il tempo brevissimo di lasciare la porta aperta, per correre al bagno e togliersi il sapone dalla faccia, è sufficiente perché tutto inizi: per il fatto che, ecco il punto, il piccolo Ciro, in fuga da chissà cosa, s’introduca furtivamente in casa. Sapremo quasi subito il motivo per cui ha bisogno di nascondersi: durante un tentativo di scippo, consumato su uno scooter insieme a Rosario, il compagno di sempre, aveva scelto non volendo la vittima sbagliata, e cioè la madre del boss Alfonso De Vivo, «la megera che reggeva gli affari criminali di mezza Napoli», con l’aggravante non da poco, altrettanto inaspettata, che la donna, provando a resistere al furto della borsa, fosse caduta a terra finendo in coma. Un bambino, insomma, in fuga dai suoi stessi genitori.

E poi: un uomo mite e raffinato – che passa le sue giornate ad ascoltare e studiare Debussy, Schumann, Schubert, Franck, Ravel, Skrjabin, Beethoven e molti altri ancora –, il quale, al di là d’ogni buon senso e d’ogni rischio personale, fino a mettere consapevolmente in gioco la sua stessa incolumità, accetterà di proteggerlo e adoperarsi così per salvarlo in ogni modo, anche il più rocambolesco. Non dirò qui dell’importante ruolo giuocato, sin dalle prime pagine, da Diego, vecchio allievo del professore e ora incallito malavitoso. Né starò a raccontare verso quale tragico esito volga, tra mille colpi di scena, la vicenda: che vedrà di nuovo in azione il fratello magistrato di Gabriele, colui che, inizialmente, si era rifiutato, anche per antichi dissapori familiari, di aiutarlo.

Aggiungerò solo che ci sono qualità di trama che, a tutela del piacere del lettore, non devono essere rivelate. Questo romanzo, in effetti – affacciato insolitamente sulla mafia napoletana, ma con risvolti da irrealtà pirandelliana, propri dell’autore già prima dei tempi (il 2012) del notevole Il trono vuoto – procede anche come un giallo, se non addirittura come un thriller. E lo fa con un gusto sicilianissimo che porta Andò a dialogare con altri scrittori, anche isolani: si pensi, solo per fare un esempio, a quella pagina su Napoli, Palermo e i cani, in cui non è difficile ravvisare un omaggio all’amico Roberto Alajmo di La famosa rivolta dei cani in Sicilia (2009) e al Marcello Benfante di Cinopolis (2006).

Epperò, per ritornare alla disposizione giallistica, v’è un passaggio, molto sciasciano – Sciascia del resto è stato uno dei maestri di quotidiana assiduità per Andò –, cruciale per la comprensione di queste pagine. Il professore si rivolge così a se stesso: «Sai bene che le indagini sono quasi sempre invenzioni, o illazioni». Il che, se aggiunto a quella inclinazione al «dormiveglia» di cui Santoro è «specialista», fa del giallo il mero mastice isolante d’un fuoco impegnato a bruciare altri combustibili.

Si diceva del fatto che il nostro protagonista declamasse una poesia ogni mattina. La prima che incontriamo è la bellissima e molto nota Itaca di Konstantinos Kavafis, che non viene interpretata al modo consueto, e cioè come un’enfatizzazione dell’importanza del viaggio rispetto alla delusiva meta, ma come una ribellione «al ricatto del tempo». Cosa che getta una luce assai significativa sul perché delle epigrafi di ogni capitolo, tutte ricavate da versi di Kavafis. Mentre ci aiuta a comprendere meglio il senso della presenza di citazioni ricavate da altri maestri. Qualche esempio? Anna Maria Ortese: «di solo tempo non ci si può nutrire, senza mangiare morte». Giorgio Caproni: «Se non dovessi tornare, / sappiate che non sono mai / partito». Come si legge a un certo punto – è il fratello magistrato che parla –, la giustizia cerca «umilmente di fare ordine nel caos», per «rischiarare le tenebre in cui siamo immersi». Ma la sua è una «debole luce», non «la luce dell’assoluto»: «Quella è letteratura». Un approdo perplesso e polemico: Gabriele, invece, la pensa diversamente. Chi avrà ragione?

Roberto Andò
Il bambino nascosto
La nave di Teseo. Pagine 224. Euro 17,00

Roberto Andò, nato a Palermo nel 1959, è regista, sceneggiatore e scrittore / WikiCommons

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