mercoledì 4 settembre 2019
Il documentario "45 seconds of laughter" è girato con un gruppo di detenuti in una prigione della California: protagonisti una trentina di uomini condannati a pene tra gli otto anni e l’ergastolo
Una scena del docufilm "45 seconds of laughter"

Una scena del docufilm "45 seconds of laughter"

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Arlecchino ha il volto impiastricciato di bianco e gli occhi svegli di un ragazzo latinos, Colombina una grande fascia rosa in testa e la stazza di un ragazzone afroamericano, Pantalone è claudicante e ha le rughe di chi nella vita ne ha viste troppe. Nella vita fuori dalle sbarre questi uomini erano nemici, membri di violente gang rivali. Adesso che stanno scontando pene lunghissime, esprimono le loro emozioni recitando insieme la commedia dell’arte e ridono di cuore. Ecco spiegato il titolo 45 seconds of laughter, '45 secondi di risate', il toccante e appassionante documentario firmato, diretto e interpretato dall’attore e regista Tim Robbins passato ieri Fuori Concorso alla 76esima Mostra del Cinema di Venezia e girato con un gruppo di detenuti nella Prigione di Stato di Calipatria in California. Il titolo si riferisce a una tecnica usata dagli attori, ridere appunto, che serve a caricarsi di emozioni positive ed endorfine. Protagonisti una trentina di uomini condannati a pene fra gli 8 anni e l’ergastolo, coinvolti in uno dei workshop teatrali dell’Actor’s Gang, la compagnia teatrale fondata nel 1982 da Tim Robbins che ha girato i palcoscenici di tutto il mondo. «La nostra è una compagnia senza scopo di lucro, che ha lo scopo di portare la cultura a portata di tutti, volevamo fare un teatro diverso» ha spiegato ieri al Lido Tim Robbins, uno degli attori più politicamente impegnati di Hollywood e protagonista di film indimenticabili come Mystic River di Clint Eastwood che gli valse l’Oscar, nonché regista di uno dei più bei film contro la pena di morte, Dead Man Walking. Ma è nel teatro, spiega Robbins sfoderando carisma e passione, che trova la libertà che non gli danno gli studios. Come quella di creare una serie di progetti sociali a partire dall’Actors’ Gang Prison Project nato nel 2006, che coinvolge gli attori della compagnia di Robbins ed anche ex detenuti divenuti istruttori, e che oggi ha 15 laboratori in 13 prigioni di stato della California. In più, l’Actors’ Gang sta svolgendo a Los Angeles un programma di reinserimento nella società per i detenuti che escono dal carcere e un programma per i giovani in collaborazione col dipartimento per la Giustizia.

«Io di carcere qualcosa ne so, dato che quando da ragazzo vivevo a New York un paio dei miei amici sono finiti in galera. Inoltre i miei genitori mi hanno cresciuto nella consapevolezza sociale – aggiunge Robbins –. Mentre giravo Le ali della libertà nel ruolo del carcerato e poi Dead Man Walking (da lui trasformata in una pièce teatrale che ha girato sinora 170 università) ho visto dall’interno la natura brutale delle prigioni statunitensi. Negli Stati Uniti abbiamo abbandonato ogni idea di riabilitazione, e invece usiamo nelle nostre prigioni un sistema punitivo che richiede disumanizzazione dell’incarcerato. Il sistema carcerario statunitense sarà oggetto del mio prossimo documentario». Lo stesso progetto dell’Actor’s Gang nelle prigioni, all’inizio è stato fortemente osteggiato, mentre oggi, forte dei risultati positivi, sta aiutando molti uomini a gestire le proprie emozioni e le proprie vite. «Molti programmi e film mostrano i detenuti come spaventosi, pericolosi animali amorali, un pericolo per la società. Ma la maggior parte di quelli che ho incontrato non sono così – aggiunge il regista –. Noi chiediamo che partecipino ai nostri programmi riabilitativi i detenuti più difficili e che ogni classe sia mescolata per origine etnica, con la partecipazione dei rivali di diverse gang. E abbiamo scoperto qualcosa di sorprendente e profondamente umano nelle nostre classi, un’esperienza che ci ha cambiato e che andava raccontata».

Ed ecco, quindi, che il documentario, girato in 8 mesi di corso, ci aiuta a conoscere i protagonisti, uomini diffidenti, che si nascondo dietro alla maschera della rabbia per mostrarsi più forti, finché dopo una serie di esercizi attoriali, respirazione, interazione di sguardi e coordinazione dei movimenti, le barriere si vanificano e i cuori si aprono, le emozioni diventano improvvisazione e, infine, si indossa davvero la maschera, ma quella di Arlecchino o Pulcinella. Perché proprio la Commedia dell’Arte? «Attraverso quei caratteri l’uomo oppresso dal carcere trova libertà espressiva. La Commedia dell’Arte di fatto è una storia universale che presenta tutte le dinamiche sociali, è una sfida al potere che vuole contrastare l’amore, ci sono i ricchi e i poveri e i servi che spesso la fanno in barba ai loro padroni».

L’Italia ha un ruolo importante: «Siamo venuti a recitare a Spoleto e anche a Milano dove ho incontrato Dario Fo che è stato grande fonte di ispirazione». Il momento più tenero del documentario è quando i detenuti-attori, non senza timidezze e paure, portando in scena la loro commedia per i parenti che non vedono da molto tempo. Le lacrime delle madri, gli abbracci alle fidanzate e le risate con i figli dicono più di molte parole. «Le madri soprattutto vedono cambiati questi uomini prima pieni di rabbia in uomini nuovi – conclude Robbins – e ritrovano i bambini che hanno conosciuto. Questo per me vale tutto».

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