Gilles Caron, Manifestazione anticattolica a Londonderry, 1969 (cortesia Fondazione Gilles Caron)
La prima volta che ebbi l’occasione di misurare il genio saggistico di Georges Didi-Huberman fu nel 1991 quando mi capitò di leggere le pagine su Beato Angelico nel volume edito da Flammarion e poi da Leonardo Mondadori. Lo storico dell’arte – in realtà Didi è un po’ antropologo, un po’ filosofo, un po’ critico, e il suo pensiero tende sempre a cercare sotto la superficie dei fenomeni, ama il deragliamento, l’ombra, il marginale – esaminava quattro pannelli nel corridoio del Convento di San Marco a Firenze, dipinti secondo l’apparenza del finto marmo ma che egli leggeva come caso ante litteram di pittura astratta.
Didi-Huberman ha proseguito nei vent’anni successivi con prolifica vena saggistica pubblicando libri su Warburg, sullo sguardo e sul corpo, su Venere e l’anatomia, sull’isteria e sulla spazzatura, sull’Olocausto. Ogni volta intelligenza zampillante, e in qualche caso una fervida immaginazione che smentisce quel detto francese secondo cui “un gatto è un gatto è un gatto...”, ovvero: stiamo ai fatti e alla realtà senza volare troppo di fantasia. Adesso si è cimentato in una impresa che rientra un po’ nello stile dell’intelligenza cool, come mi dice un amico, e che io, in modo più ruspante, preferisco chiamare “fighettismo intellettuale” (per il contrasto che si crea tra intenzioni e fatti). Al Jeu de Paume di Parigi ha organizzato una esposizione dal titolo a più sfumature: Soulèvaments (rivolte, ma anche capacità di sollevarsi sopra i fardelli storici e sociali che ci affliggono).
Nel biancore algido del museo nato – ci ricorda nel catalogo la sua direttrice, Marta Gili – come centro per l’immagine, si snodano con identico algore le opere che compongono, per così dire, una “galleria moderna delle rivolte”. Didi evoca l’effetto white cube, ma è una excusatio non petita. Non vorrei apparire controrivoluzionario se dico che a visita terminata decido di bere e mangiare qualcosa al bar del museo e strabuzzo gli occhi: un tramezzino 6,9 euro, uno spicchio di tarte salée du jour 8,50, il toasté tomatés-mozza (!) 6,40... cibo per palati dei ceti medio-alti, che quanto a ribellione il massimo che possono concepire eventualmente è il tatoo o il dito medio come vezzo interclassista.
Anche il catalogo, in classico formato libro con copertina cartonata, costa 49 euro. Proviamo a immaginare l’operaio medio francese (che probabilmente ha salari un po’ più alti di quello italiano, ma non così alti come quello svizzero e tedesco) che decide di andare a vedere questa esposizione dove dalla Comune alla lotta di classe, al Sessantotto si passa in rassegna molto di quanto può essere considerato “collaterale” o testimone delle periodiche rivolte del popolo contro i potenti e i governanti. Quale sarà la sua reazione quando apprende che un libro sul quale potrebbe approfondire ciò che ha appena visto costa come una giornata del suo lavoro? Mi viene in mente che la rivista futurista “Lacerba” aveva un numero molto elevato di abbonati e che la maggioranza erano operai. I tempi sono cambiati...
Ahi, mi è sfuggita una parola scomoda: popolo. Possiamo considerare appartenenti al popolo quei ragazzi in camicia e maglioncino, calzoni e scarpette alla moda che, in posa plastica, lanciano sampietrini contro le forze dell’ordine durante le manifestazioni del maggio francese? Figli della borghesia, molti erano studentelli che scambiarono i loro desideri per realtà (immaginazione al potere), vollero combattere l’ordine esistente per abbattere l’immagine dei loro padri, e raccogliendosi nel cortile della Sorbona erano convinti di trovare un mondo nuovo sotto i sampietrini. Tutti in marcia verso le città di sabbia immaginate mentre su quelle reali, poco lontano da loro, avevano lasciato l’impronta i cingolati dell’orso siberiano. Enfants gâtés. Durò poco e poi... era un gioco non era un fuoco... Uno slogan d’epoca diceva: Quand la France s’ennuie… gioca alla rivoluzione. Non sono così sicuro di ciò che afferma Marta Gili: «I musei e le istituzioni culturali del XXI secolo non possono disinteressarsi delle sfide sociali e politiche della società di cui fanno parte».
Mah. Posso dire che mentre il Jeu de Paume era popolato da piccoli grappoli di visitatori, al Musée d’Orsay la mostra di Frédéric Bazille era così stipata che si aveva qualche difficoltà a vedere i quadri. Bazille è meno politico della rivolta di Didi? Morì nel 1870, nella guerra contro i prussiani, beccandosi una pallottola in fronte (Monet e Pissarro erano fuggiti a Londra perché, per loro stessa ammissione, non volevano morire in una stupida guerra, e Pissarro si dava arie da anarchico socialista). Alla mostra sul Bauhaus nel Museo delle arti decorative si stava gomito a gomito per vedere opere e oggetti, e moltissimi erano giovani: il Bauhaus è meno politico della rivolta? Mah, fatico a capire certe affermazioni. Didi inizia dalla pesantezza dei nostri tempi. Dai disastri della guerra, dai migranti e dal blocco delle frontiere in Macedonia nel marzo scorso. Si serve di Eschilo e della tragedia delle Supplici e nota che una recente edizione francese ha tradotto il titolo con Les Exilées: «Tragedia legata direttamente al mito fondatore dell’Europa» e al tema sacro dell’ospitalità «che si trova in conflitto col calcolo politico e governativo». Poi cita Brecht e la sua profezia dei «tempi bui» che oggi rivive nel trattamento riservato agli esiliati e ai fuggitivi.
Muore il potere salvifico dell’immaginazione, la fine del desiderio secondo Benjamin, quella di chi si arrende al proprio tempo, in una «sottomissione tanto malinconica, quanto cinica o nichilista». Come reagente critico Didi usa Freud e la sua idea che la pulsione di morte rende più chiara l’«indistruttibilità del desiderio», così la si ritrova nei canti di prigionia di tanti uomini presi nelle maglie distruttrici delle guerre e dei totalitarismi moderni. Ma i tempi più che bui sono grigi, aggiunge: temps de plomb. Mi fa ricordare il cielo plumbeo nella Zattera della Medusa di Géricault: avrebbe giovato però esporre qualche disegno di studio di quest’opera capitale dove il soulèvement è affidato all’immagine di un uomo di colore che, al vertice della piramide umana, sventola un drappo rosso per attirare l’attenzione della nave lontana.
E l’unica opera della mostra che può competere con quello spirito è quella di Annette Messager intitolata Les piques (1992). Evidenza delle rivolte: atto di sciogliersi dal proprio fardello di tristezza e alienazione (come nelle figure di Goya o di Kathe Kollwitz, di Julio Gonzalez, di Grosz o Ernesto Molina). Didi ha composto una sequenza “transtorica”, dalla fotografia delle bare aperte dei comunardi, attribuita a Disdéri, a un grande quadro di Sigmar Polke, che nella sua bellezza astratta perde però per strada quell’evidenza che la Libertà di Delacroix (non esposta), invece, potenzia fino all’enfasi. Nel mezzo due secoli di rivolte. Non una mostra di storia, caso mai la stenografia di una umanità che non si arrende, analizzata tuttavia con sguardo clinico e scarsa empatia.