mercoledì 30 marzo 2016
RIVA, non si vive di solo basket
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Come lui, nessuno mai. Antonello Riva, il Nembo Kid della pallacanestro italiana, uno dei più forti giocatori nostrani di tutti i tempi: oro con la Nazionale agli Europei di Francia del 1983 (e argento agli Europei italiani del 1991), campione pluridecorato al servizio di Cantù (tra cui uno scudetto e due Coppe Campioni) e detentore del primato di punti nel massimo campionato. Riva sul parquet non faceva sconti a nessuno. Un leone, una furia: Riva dettava il tempo, gli altri seguivano. Un canestro dopo l’altro dal 1977 al 2005, poi la carriera da dirigente, che porta avanti fino all’autunno 2014, quando decide di lasciare il basket per diventare manager nel campo degli integratori dietetici. Sembrava un passo indietro, invece a 54 anni questa è l’ultima tappa di un percorso professionale denso di soddisfazioni. Riva, perché ha abbandonato il suo mondo, quello del basket? «Non ero più soddisfatto di quanto stavo facendo nella pallacanestro e ho seguito mia moglie, che da qualche tempo collaborava con un’azienda tedesca che produce prodotti per il benessere. Da quel momento, è iniziato quello che ancora oggi fatico a chiamare lavoro. Ho parlato dell’efficacia dei prodotti con amici e conoscenti, diventando in breve tempo un punto di riferimento per l’azienda. Se sono felice della mia scelta? Non avrei potuto fare scelta migliore». Si dirà: facile investire sul proprio futuro quando si è ricchi e famosi... «Tutt’altro. All’inizio sentivo il peso del giudizio delle persone che mi avevano seguito per anni come giocatore, avevo paura di mettermi in gioco. Poi, ho lasciato fare al caso. Una chiacchierata con gli amici, la voglia di provare una nuova esperienza lavorativa e la convinzione che il prodotto che consigliavo fosse realmente utile ed efficace. Tempo qualche settimana e i dubbi avevano lasciato spazio al desiderio di inventarmi un nuovo futuro. Spesso restiamo legati con quanto ab- biamo costruito nel corso degli anni. Cambiare vita, lasciare il mondo che avevi imparato a conoscere, non è mai una passeggiata. Ma quando ti trovi davanti a una strada senza uscita, devi trovare dentro di te la forza per aprirti a nuove avventure». Parole sue: «Alle condizioni attuali non c’è la minima possibilità che io possa tornare a occuparmi di pallacanestro a tempo pieno». «Ho capito di non avere le caratteristiche necessarie per fare il dirigente nella pallacanestro di oggi, perché non ero abbastanza bravo per conoscere e giudicare tutti i giocatori sul mercato. Ma soprattutto non riuscivo a mandare giù l’idea che la mia carriera non dipendesse soltanto dalle mie decisioni, giuste o sbagliate che fossero. Per essere chiari, non mi andava di scendere a continui compromessi, tipo dispensare sorrisi soltanto per diventare amico della persona giusta». Per alcuni, la crisi del basket tricolore passa anche da questo “sistema” imperante. «Non è un segreto, la pallacanestro italiana sta vivendo un momento difficilissimo. Girano pochi soldi ed è sempre più complicato rispettare gli impegni presi a inizio stagione. Il presidente federale Petrucci ha detto che pagare i compensi dei giocatori con due mesi di ritardo è normalissimo. Ma stiamo scherzando? Negli ultimi anni, il mio lavoro consisteva quasi esclusivamente nello spendere la mia immagine per tranquillizzare l’ambiente fino al termine della stagione. Il basket di casa nostra ha molti problemi. Se non si cambia davvero, sono guai». Cambiare sì, ma come?«Innanzitutto, entrando nelle scuole per ricominciare a insegnare i valori del nostro sport. Come è possibile assistere a una partita di Serie A dove i giocatori italiani si contano sulle dita di una mano? L’anno scorso il basket ha avuto meno iscrizioni della Federazione danza sportiva. Impensabile fino a qualche anno fa. Mi sono avvicinato alla pallacanestro a dieci anni perché era una delle tre discipline con le quali mi sarei dovuto confrontare ai Giochi della gioventù. Non sapevo nemmeno cosa fosse, poi è scoppiato l’amore. L’obiettivo di iniziative come queste non deve essere creare campioni, ma conoscenza. Perché chi conosce, impara ad amare. In campo, ma pure sugli spalti».  Per Petrucci la squadra che ha preso parte agli ultimi Europei era la migliore di sempre. Eppure, è arrivata l’ennesima delusione, perché? «Era la migliore che potessimo presentare, su questo non ci sono dubbi. Ma non è facile mettere insieme chi gioca nella Nba con chi gioca nel nostro campionato, perché l’approccio alla gara è completamente diverso. L’unica critica che mi sento di muovere al c.t. Simone Pianigiani è di non aver creato una graduatoria stabile e condivisa. Chi erano i giocatori sui quali il gruppo avrebbe dovuto fare affidamento nei momenti più difficili? Gallinari, oppure Bargnani, Belinelli, Gentile?». A luglio si terrà a Torino il torneo di qualificazione per le Olimpiadi di Rio, dobbiamo preoccuparci? «Non sarà facile, ma abbiamo tutto quello che serve per fare bene. Ho grande stima del nuovo ct Ettore Messina. Con lui al timone, l’Italia può raggiungere traguardi importanti ». Riva e la Nazionale. Ha vestito l’azzurro da giocatore, poi nulla più. Decisione sua? «Qualche anno fa, l’allora presidente federale Dino Meneghin mi propose di fare il team manager, ma allora ero impegnato con una squadra di club e non me la sentivo di assumere altri incarichi. In realtà, sono amareggiato perché sono fuori dell’ambiente da un paio di anni e non ho ricevu- to nemmeno una telefonata dalle persone che guidano il nostro movimento. Questa mancanza di attenzione nei confronti di chi ha fatto tanto per la pallacanestro italiana non credo che porti lontano. Penso a grandi tecnici come Valerio Bianchini, Sandro Gamba e a tutti gli ex azzurri che hanno contribuito a fare grande l’Italia in passato. Tutti dimenticati. Cosa risponderei se mi chiamasse Petrucci per propormi di aiutare in qualche modo la Nazionale? Prima di dire no ci penserei due volte». Ha detto addio al basket professionistico a 43 anni. Chi meglio di lei potrebbe dare un consiglio a Francesco Totti? «Ho avuto la fortuna di giocare a lungo e a buoni livelli, ma sapevo che prima o poi avrei dovuto farmi da parte. Puoi prepararti al meglio, fare tutte le riflessioni del caso, ma fa male lasciare le abitudini che ti hanno accompagnato per così tanto tempo. Totti? Se si sente bene, continua a divertirsi ed è convinto di poter ancora dire la sua, è giusto che vada avanti. Ha dato tantissimo al calcio e soltanto lui dovrebbe decidere per il suo futuro ».
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