sabato 18 settembre 2010
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Luan Starova è decisamente un uomo dei Balcani. Non solo nel senso ovvio che nei Balcani i è nato e ci vive, ma soprattutto perché ben riassume in sé, nella biografia e nel suo lavoro intellettuale, i movimenti, le mescolanze, le contaminazioni, le contraddizioni che segnano in profondità quest’area del mondo. Starova è nato nel 1941 a Pogradec, sulla sponda albanese del lago di Ohrid, e vive a Skopje, dove è emigrato. È francesista, diplomatico – è stato il primo ambasciatore macedone a Parigi – e soprattutto scrittore. In Saga balcanica, opera in dieci volumi scritta in albanese e macedone, tratta il destino complesso della sua famiglia di migranti e lo fa con raffinata ricchezza di riflessioni sulla storia balcanica del Novecento. Racconta di confini, di esilii e di traslochi, in cui l’unica cosa che sopravviveva era l’enorme biblioteca del padre, che definisce «balcano-babelica». Così, attraverso la micro-storia della sua famiglia narra anche la grande storia, quella dei Balcani dalle frontiere perennemente instabili e mobili, dei conflitti e delle tensioni, ma anche delle ricchezze culturali. In Italia sono pubblicati "Il tempo delle capre" e "Sacrificio balcanico".L’Europa sembra essere il destino naturale della Macedonia e di tutti i Paesi della ex-Jugoslavia, quasi un mito capace di risolvere i problemi interni. Ma la crisi ne ha mostrato la debolezza, il rilancio dell’integrazione si allontana e per la Macedonia l’attesa d’essere accolta nella Ue si fa frustrante. Senza l’Europa, quale futuro si pone per i Balcani?«Forse occorre ribaltare la domanda. I Balcani sembrano essere il destino naturale dell’Europa, un punto inevitabile tra Occidente e Oriente. Il destino dell’Europa durante la Grande Guerra si risolse nei Balcani e il risultato fu la monarchia jugoslava (invenzione di Clemenceau), che non riuscì a risolvere i problemi interni ed impose come criterio di governo la gerarchia etnica. L’esito fu la decomposizione fratricida del Paese e le illusioni dei vari staterelli di recuperare il passato perduto attraverso una dolorosa transizione che li avvicinasse al ritmo civile dell’Europa dei cittadini. I balcanici credevano di trasformare l’originalità delle loro culture in vantaggi e il sentimento nazionale, tendente al nazionalismo, mirava all’equilibrio tra l’identità propria e l’accettazione dell’identità dell’altro, equilibrio difficile in sé ma ancor più difficile nei Balcani, com’è nel caso della Macedonia. Ma per avvicinarsi agli standard europei occorre tempo, la vera democrazia non è per domani. La transizione verso l’economia di mercato ripete il déjà vu dei Paesi dell’est e la capacità del potere di risolvere i problemi del Paese è alquanto limitata. Si vive la fase del panem et circenses, anzi più quella del circo che del pane».La Macedonia non è etnicamente omogenea e la demografia si fa politica. Gli albanesi – un quarto della popolazione – hanno tassi di fecondità ben più elevati dei macedoni slavi, per cui tra una quindicina d’anni le due etnie si equivarranno. Quali saranno le conseguenze linguistiche, culturali, ma anche strettamente politiche?«Credo che la ragione di queste statistiche delle differenti etnie non solo in Macedonia ma nella stessa ex-Jugoslavia venga dalla logica dei vecchi regimi che vedevano nella presenza albanese un pericolo, malgrado il suo forte isolamento specie nel passato. Oggi gli albanesi sono più che mai in movimento nei Balcani, ma anche in Europa ed altrove. Penso che l’armonizzazione dei rapporti di cittadinanza nelle società balcaniche sia la sola prospettiva degna di reali previsioni».Trent’anni fa Tito moriva e la Federazione jugoslava cominciò a dissolversi solo dieci anni più tardi. Non si possono escludere nuove fratture, come in Bosnia, mentre la Macedonia non ha rapporti facili con i vicini. È realistico pensare ad un processo di ricomposizione, almeno culturale ed economico, dell’area che fu la Jugoslavia?«La creazione della Jugoslavia fu il risultato della Grande Guerra. Anche la seconda Jugoslavia fu il risultato di un’altra guerra mondiale. Tito riuscì a salvare l’equilibrio nella guerra fredda dell’epoca bipolare, geostrategica, ideologica. Ma non seppe creare istituzioni capaci di essere durevoli ed indipendenti. Vennero però costruite delle grandi vie di comunicazione che devono ancora servirci a non isolarci; continuo a non vedere la ragione di separazioni e disintegrazioni e nemmeno del ritorno di frontiere che in tutta Europa sono in via di sparizione. Si esce dall’isolamento degli spazi ex-jugoslavi anche attraverso l’uso dei percorsi già esistenti . Come ad esempio la romana Via Egnatia tra Brindisi e Bisanzio che visse per secoli nonostante le guerre tra imperi e che oggi potrebbe essere ricalcata dal Corridoio 8. Credo che i caratteri nazionalisti delle frontiere balcaniche siano finiti. Ci credo profondamente e vi cerco la ragion d’essere nel mio lavoro letterario».Ne Il tempo delle capre lei descrive in modo surreale l’irrazionalità del potere comunista, che voleva trasformare di colpo i pastori macedoni in classe operaia. Quali sono oggi le irrazionalità che snaturano l’identità dei Balcani, la loro storia ricca, complessa, perfino «eccessiva»?«Sono l’autore di una saga romanzata che racconta la storia di una famiglia albanese nell’esilio balcanico di un secolo partendo da una metafora globale fatta di capre, anguille (esseri migranti per eccellenza), giannizzeri, chiavi di casa (che ci portavamo dietro nell’illusione di poter un giorno tornare). La linea di questa saga passa nel pensiero del bambino narratore, alter ego dell’autore, che dovrebbe rappresentare una salutare meditazione sulla provvisorietà delle cose in generale e in particolare nei Balcani. Per rispondere alla domanda devo dire che immagino un altro romanzo dal titolo Il ritorno delle capre. Si tratta del destino delle capre cinquant’anni dopo. Nei villaggi quasi deserti, in cui c’è fame ed emigrazione – è la Macedonia dei difficili anni Novanta – non si riescono a creare degli ovili nonostante l’aiuto e la tecnologia di una associazione francese di sviluppo zootecnico. Così le povere capre finiscono nelle mani della "mafia caprina" (metafora della transizione) e presto scompaiono tra le montagne, divorate da lupi dal volto umano come quelli che descrissi ne Il tempo delle capre».
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