domenica 8 maggio 2016
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Tornare alla terra. Coltivare il giardino. Ritrovare il piccolo, il locale, il familiare, il fazzoletto di campagna, dimentichi dell’alta finanza, della grande industria, separati dalle mondanità del mondo, per radicarsi nel suolo materno. Questa è ormai la bella utopia. Quella dei nostri amici Amish. Quella di un ritorno alla vita domestica, quando la politica è talmente pervertita. Quella di un ritorno agli utensili, quando le apparecchiature tendono a disprezzare le nostre mani. Quella di un ritorno alla campagna, o addirittura alla natura incontaminata, quando la città è totalmente 'connessa'. Un tale ritorno è però possibile senza illusioni? Ci fu un tempo in cui bastava piantare una siepe per mettersi in disparte dal vicino. Ci fu un tempo in cui il catasto aveva un senso: qui si era a casa propria, al chiuso, al riparo, e d’altra parte questo permetteva di uscire per andare incontro all’altro o di restare per offrirgli ospitalità. Ma bisogna arrendersi all’evidenza: quel tempo è passato. Il Roundup di Monsanto si diffonde tra le nuvole, la pioggia e la nebbia e diventa atmosferico. Nessuna dogana ha potuto obbligare le radiazioni di Chernobyl al rispetto delle frontiere. La grande barriera corallina può situarsi in mezzo al Pacifico finché vuole, le nostre emissioni di CO2 sono riuscite a raggiungerla e ridurre la sua superficie della metà. Dov’è dunque l’approdo immacolato? Dove sono la terra sana, l’acqua pura, l’aria senza pesticidi né radiazioni? La risposta può essere immaginata non senza qualche brivido. È simile al 'naturale' di uno studio televisivo. Per compensare l’artificio dell’illuminazione bisogna rinforzarlo con uno spesso maquillage. La pelle del presentatore non sembra malaticcia solo a condizione di essere ricoperta di una mano di intonaco che le permetta di prendere bene la luce dei proiettori. E i suoi gesti sembrano spontanei solo in una continua finzione che sposi tutte le manovre della telecamera. L’Eden si ricostituisce solo in una ridondanza della caduta. Questa è la logica che sta alla base della nascita degli ortaggi Toshiba (ai quali mi limiterò, lasciando da parte gli spinaci Panasonic e le lattughe Fujitsu). Il conglomerato industriale nipponico ha grande reputazione per le sue televisioni, i suoi computer, i suoi reattori nucleari. Ma ecco che, proprio a causa dei reattori di Fukushima, dopo lo tsunami del marzo 2011, la questione degli ortaggi non contaminati si è posta ai giapponesi drammaticamente; e Toshiba, dopo altri grandi gruppi dell’elettronica, ha deciso di trasformare una fabbrica anticamente addetta alla fabbricazione di lettori di dischetti in una fattoria verticale. Su una superficie di 2000 metri quadri a Yokosuka, vicino a Tokyo, questa Clean room farm produce oggi tre milioni di insalate all’anno. Ovviamente sono coltivate senza terra, su rotelle, in grandi scaffalature bianche con «lampade fluorescenti speciali, ottimizzate per la crescita dei vegetali», aria condizionata che mantiene costanti temperatura e umidità e un sistema di microchip che tiene sotto stretta sorveglianza lo stato fisico delle piante e l’asetticità del luogo. Con una procedura simile, Sharp, specialista delle 'fotocopiatrici multifunzione per l’impresa', ha già una «fattoria digitale di fragole». Si trova a Dubai, e «riproduce, in uno spazio chiuso, le condizioni ideali per la coltivazione del frutto». Qui starebbe l’avvenire dell’agricoltura 'bio e di prossimità', secondo il parere dell’ecologo e microbiologo Dickson D. Despommier, non nel ritorno alla terra, dunque, ma in una riformattazione degli immobili: degli Empire State Buildings di rucola e scarola, delle Trump Towers di frutti di bosco e patate… E più non importano le stagioni o la latitudine. Nessuna donna incinta potrà più essere capricciosa (tanto più che in questa prospettiva non ci saranno più donne incinta ma personale di manutenzione delle matrici elettroniche). Con queste serre-grattacielo faremo crescere la papaya nell’inverno siberiano e perfino nell’inverno nucleare o su Marte. Panasonic, per esempio, fabbrica alcune delle sue ' Veggie life salads' in una fabbrica ultra-sterile impiantata sul territorio di Fukushima che, da questo punto di vista, non è peggiore di un altro posto qualsiasi. Hans Jonas lo sottolineava nel suo Principio di responsabilità: La «civilizzazione tecnologica» mette fine a una morale giocata esclusivamente nella prossimità, dove la natura è ancora una riserva immacolata e inesauribile. Gli effetti del tecnocosmo sono talmente smisurati, talmente globali, che non ci si può più accontentare di ritirarsi nel proprio giardino per rivivere. L’isola deserta è già ricoperta di volantini e di rifiuti tossici. Inoltre, sfortunatamente, l’impegno deve necessariamente avere una dimensione politica e internazionale. E bisogna entrare in una certa radicalità. Una radicalità le cui radici non siano però come quelle della fattoria Toshiba: astratte, fantasmatiche, lontane dalla terra carnale. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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