venerdì 14 aprile 2017
Il «primo giorno dopo il sabato» Giuseppe d'Arimatea si trova davanti all'evidenza del «corpo che non c'è più». Le sue ansie, i suoi dubbi riletti come in una fiction
Giovanni Antonio Lappoli (1492-1552), "Cristo sorretto da Giuseppe d'Arimatea".

Giovanni Antonio Lappoli (1492-1552), "Cristo sorretto da Giuseppe d'Arimatea".

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Avrò perso il conto del tempo, ma so che sono passati molti anni dal giorno in cui ho chiesto al mio servo di essere lasciato solo, un mattino di primavera, memorabile come possono esserlo gli avvenimenti che non trovano spiegazione dopo un’intera vita. Adesso che mi sono fatto vecchio e i pochi capelli rimasti in testa sono tutti bianchi, continuo a ricordare le parole che gli avevo rivolto: «Zoroadele, mi raccomando. Non voglio persone in casa. Devo pensare». E mi ero fermato alla finestra della stanza più alta, quella da cui si vedeva il Tempio, che era la parte di Gerusalemme a cui tenevo di più. Il resto, mercati, locande, lupanari, erano luoghi che già a quell’epoca consideravo non adatti a uno come me. «Nessuno entri fino a nuovo ordine» avevo aggiunto. E Zoroadele aveva sprangato il portone. In verità quella non era la mia casa. Io sono nato ad Arimatea e lì possedevo edifici e terreni che mi davano ricchezza. Quella di Gerusalemme invece era un punto di appoggio non di mia proprietà, mi ci fermavo per affari o se erano previste assemblee al Consiglio.

Qualche volta, se il Maestro era in città, andavo a trovare i suoi amici in segreto, mangiavo con loro, ascoltavo i loro ragionamenti e rientravo come un ladro di notte. Zoroadele mi aspettava in piedi, riconosceva i passi, mi apriva. Era astuto e fedele, sapeva come comportarsi in caso di visite inaspettate o se arrivavano le guardie di Caifa. Me lo ero scelto perché era sordomuto: virtù eccellente per un servo. Quando avvennero i fatti della crocifissione, lui era con me, in mezzo alla folla. Si sa come vanno queste cose: ci si fa prendere la mano, si pensa alla politica e alla fine si arriva alla guerra. Qualche giorno prima avevo parlato a quattr’occhi con Caifa: «Stai esagerando. Il Maestro non porta molestie al nostro popolo. La sua è un’utopia». Ma Caifa non si era fatto convincere dai miei ragionamenti. Mi aveva guardato di sbieco: Giuseppe vuole mettermi in un sacco, avrà pensato, Giuseppe ha imparato l’arte del filosofo e approfitta della mia distrazione. Ed era andato dritto per la sua strada, aveva messo di mezzo Pilato e lo sconquasso era accaduto. Sconquasso è dire poco. Il Maestro l’aveva annunciato che sarebbe risorto, ma io non so davvero chi ci avesse creduto, non dico Giuda Iscariota, ma Pietro, perfino Pietro, lo fissava certe volte con un occhio perplesso. Ricordo la faccia di Zoroadele quel mattino di primavera, quando è venuto a svegliarmi: non stava fermo, saltellava, muoveva le braccia fingendo di avere le ali di un uccellino che prende il volo. «Zoroadele» l’avevo rimproverato io, «il Maestro l’hanno condannato. Che altro può essere successo?».


Mi aveva preso per una manica, mi aveva fatto scendere dal letto e aveva voluto che io corressi nella casa dove stavano radunati i seguaci del Maestro. Con loro mi ero trattenuto poco, il tempo di guardarli in faccia, Pietro, Giovanni, Maria la madre del Maestro, tutti a occhi sgranati, tutti sognanti: «Il Maestro è risorto! Il Maestro ha mantenuto la promessa! » «Risorto?», ero intervenuto io. E senza nemmeno un perché avevo guardato il mio servo, che anche lì, davanti a loro, continuava a sorridere e a muovere le braccia come un uccellino che vola. «Non facciamo scherzi», mi ero fatto avanti con voce più decisa. «L’ho sistemato nella tomba, ho coperto il suo corpo con un lenzuolo bianco, c’era con me Nicodemo, potete chiedere anche a lui. Come sarebbe a dire: risorto?» Inutile domandare spiegazioni. Avevo fatto segno a Zoroadele di andar via: presto a casa, spranga la porta, chiudi le finestre, voglio restare solo a pensare. E i miei passi si accompagnavano a un miscuglio che ancora oggi, dopo tanti anni, non saprei definire: incredulità, meraviglia, inquietudine, forse anche un po’ di allegria. Nella mia tomba, continuavo a ripetere tra me e me, nella mia tomba dove nessun morto era ancora entrato e che avevo scelto per me, chi lo poteva immaginare? E pensavo pure: come sei previdente, Giuseppe, non hai una casa a Gerusalemme, una tomba però te la sei comprata. A Gerusalemme è meglio starci da morti che da vivi. Zoroadele camminava due passi dietro.

Aveva capito la mia agitazione e cercava in ogni modo di non dare fastidio, tant’è che ero stato io a voltarmi per chiamarlo: dopo quel che è accaduto, chi se ne importa tra noi chi è servo e chi padrone? Mi divorava la fretta di rimanere solo, alla finestra della stanza più alta, con il tetto del Tempio alla portata del mio occhio. Non mi capacitavo di quel che era accaduto. «Ma come può essere?» continuavo a ripetere. E il pensiero andava a tre giorni prima, a quando il Maestro era stato pianto dalla madre, alla faccia di Pilato quando gli avevo chiesto il permesso di seppellirlo nella mia tomba. «Sta facendo notte» gli avevo detto. «Non c’è tempo per cercarne un’altra». E Pilato mi aveva risposto con un cenno. Doveva essere anche lui poco convinto. Si trovava dentro una storia in cui non sarebbe voluto entrare ed era chiaro che non vedeva l’ora di sbarazzarsi di quei ricordi, dimenticare quei giorni, voltare pagina e riprendere la vita normale: i soldati, le leggi, lo Stato, la famiglia. Prima di congedarmi, aveva aperto bocca: «Non ho trovato colpe in quell’uomo». «Lo so» avevo risposto io. E lui mi aveva dedicato un’occhiata d’intesa: come mai un membro del Consiglio mi parla così? Tutto poi era avvenuto in fretta tra me e Nicodemo perché era già buio e non potevamo rischiare di lasciare la sepoltura a metà.


Avevamo preso il Maestro chi dalle ascelle e chi dai piedi, lo avevamo coperto con il lenzuolo ed eravamo andati via senza spendere una parola, come due fuggiaschi che non avevano il coraggio di salutarsi. Dopo lo sconquasso di quella notte non sono più tornato a gettare un occhio là dentro, nella tomba che avevo scelto per me, sotto la collina che guarda al Tempio. So che ogni cosa è rimasta così com’era, con la porta spalancata e i vasetti dell’olio sul muretto dove li aveva lasciati Maria Maddalena. Zoroadele ci capitava spesso e poi correva a raccontarmi i particolari con la stessa faccia di quando mi aveva svegliato, quel mattino di primavera, facendo l’uccellino con le braccia. Qualche anno fa è morto e io sono diventato troppo vecchio per avventurarmi da solo. È morto anche Caifa, Pilato è stato trasferito in un’altra zona dell’impero e nel corso degli anni, mi dicono, è aumentato il via vai di curiosi. Tutti vogliono vedere il sepolcro del miracolo, lo chiamano così, sepolcro del miracolo. Tutti tranne me. Ma se non ci vado non è per mancanza di coraggio o per i mali che assillano la mia età. Ci andrò quando sarò pronto, quando finalmente avrò capito cos’è accaduto. Nel frattempo non so quante volte il Maestro è venuto a trovarmi in sogno, si ferma vicino al fuoco, mi parla della lunga notte che ha trascorso nel mio sepolcro, avvolto nel lenzuolo bianco, e di una voce che a un certo punto lo ha svegliato.

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