sabato 27 marzo 2010
Parla lo storico Guido Formigoni: «Per capire il processo unitario bisogna inscriverlo nella sua epoca».
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«Dobbiamo obbiamo uscire dalle secche di un dibattito un po’ schematico e provinciale, pro o contro. Il Risorgimento fu un fenomeno complesso che, per essere compreso fino in fondo, dev’essere inquadrato in un contesto europeo». Guido Formigoni, ordinario di Storia contemporanea alla Iulm di Milano, spiega: «Il processo di unificazione d’Italia, complicato e farraginoso quanto si vuole, non è un caso a sé. Accanto ad alcune specificità nazionali, presenta dei tratti tipici comuni con il resto d’Europa».A cosa si riferisce?«Per esempio alla questione della forma di Stato. Nel Risorgimento c’era un forte nucleo di ispirazione confederale o federale. Ma è vero anche che l’idea federalista risultò assolutamente soccombente nella stagione dell’affermazione delle nazioni e dell’industrializzazione: il rafforzamento del controllo dello Stato fu carattere dell’epoca. Basti pensare alla Svizzera dopo la guerra del 1845-47 contro i cantoni cattolici ribelli; o alla Germania, che Bismarck volle federale solo per ancorarsi alla tradizione, ma che in realtà era sottomessa al nucleo forte prussiano; o alla Guerra di secessione americana del 1861-65, che mise le basi del primato dello Stato federale sui governi locali. L’Italia accentratrice, insomma, da questo punto di vista rappresentò una regola, non un’eccezione».Un’altra accusa ricorrente al processo risorgimentale è quella di essere stato un fatto elitario, senza la partecipazione delle masse popolari.«È vero: ma in Europa la musica non era diversissima. Tutti gli Stati nazionali si formarono (o trasformarono) in quel periodo per impulso di élite intellettuali e sociali e quasi senza la partecipazione popolare (se non in chiave subalterna e derivata). Il suffragio universale era l’eccezione: in Francia arrivò di fatto con la Terza repubblica (dopo il 1870), mentre in Germania il Reichstag dal 1871 era eletto a suffragio universale, ma aveva poteri ridotti, visto che il cancelliere non era responsabile nei suoi confronti. La questione della partecipazione delle masse alla vita sociale e politica nazionale si porrà, insomma, in maniera drammatica, in un momento successivo a quello della formazione dello Stato, a cavallo tra Otto e Novecento».La questione cattolica, per via anche della presenza del papato, non è un fatto peculiare italiano?«Anche qui bisogna fare delle precisazioni. A livello generale nell’intera Europa (qui il caso americano è diverso) si pose il problema della laicizzazione della vita pubblica, civile e individuale; ovvero della distinzione del piano religioso da quello del potere e del controllo della vita quotidiana, che trovava una diversa legittimazione da quella divina. Una distinzione che è stata possibile proprio all’interno dell’orizzonte cristiano, ma che creò problemi e tensioni fortissime ovunque, non solo in Italia, in quanto rompeva con una tradizione consolidata. Basti pensare al Kulturkampf di Bismarck o allo scontro sulla separazione Stato-Chiesa in Francia. E, comunque, in Italia non si può ridurre tutto a una guerra tra guelfi e ghibellini».In che senso?«Laici e cattolici non erano due blocchi monolitici. Nella classe dirigente risorgimentale c’era chi mirava a regolare i rapporti Stato-Chiesa nella libertà in uno Stato neutrale dal punto di vista religioso, togliendo i privilegi ecclesiastici e riducendo la Chiesa al diritto comune: il modello di Cavour con la formula "libera Chiesa in libero Stato". Altri ingaggiarono una lotta per ridurre l’influenza della Chiesa nella società, in nome di una visione anticattolica o anticristiana, mirante a creare una nuova religione civile sostitutiva, della patria o della ragione. Stesso discorso si può fare per il campo cattolico: ci furono i reazionari, i filo-borbonici, gli intransigenti, i cattolici liberali, i conciliatoristi e così via. E bisogna dire che anche tra i cattolici intransigenti esisteva una forte idea di unità nazionale: il processo unitario, per loro, avrebbe dovuto avere un cammino diverso, ma non veniva messo in discussione in quanto tale. La polemica anti-statale, pensiamo ai giovani della democrazia cristiana di Murri e Sturzo, verrà poi recuperata in una chiave riformista, non certo nostalgica».Specifica, però, era la presenza del papato nel territorio italiano… «Certamente. Ma vorrei far presente che la Questione romana, così come era interpretata da Pio IX, non era soltanto la legittima pretesa a una più o meno simbolica sovranità temporale che permettesse al papa il libero esercizio della missione religiosa e spirituale. Ma riguardava in profondità anche il delicato rapporto tra potere civile e autorità religiosa, che presupponeva, da parte del Vaticano di quell’epoca, il totale rifiuto di uno Stato laico, che comportasse ad esempio la libertà religiosa, l’emancipazione degli ebrei e dei protestanti, e via dicendo. Messe così le cose, in quella stagione il conflitto era inevitabile ed ebbe costi immensi su tutt’e due i fronti. Ma da subito alcuni non credenti e alcuni cattolici si misero al lavoro per cercare di smussarlo, rimuoverlo, ridurne gli effetti negativi».Facciamo un salto in avanti nel tempo: lei è d’accordo con chi vedeva nella Prima guerra mondiale il compimento del Risorgimento?«È una tesi fascinosa, ma molto retorica. Ci fu in Italia una minoranza di interventisti democratici (tra cui i giovani democratici cristiani), che vedevano nella guerra l’occasione per stabilire un nuovo ordine internazionale fondato sulla cooperazione tra libere nazioni. E ci furono sinceri irredentisti. Ma in realtà la guerra fu decisa e condotta dai governi italiani in una prospettiva prevalentemente imperialista, quanto velleitaria. E la stessa ottica prevalse alle trattative di pace, che crearono i presupposti per le successive tragedie in Italia, nell’Europa e nel mondo».
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