mercoledì 20 maggio 2020
Lo scrittore e saggista: «La pandemia ci ha fatto riscoprire la fragilità dell’uomo. Ora attenti alla foga della ripartenza»
Francesco Cataluccio

Francesco Cataluccio - -

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All’inizio non se n’era reso conto neppure lui, ma all’infuriare del contagio Francesco Matteo Cataluccio non era del tutto impreparato. «Un po’ per certi libri che avevo letto in passato e che ora mi tornavano in mente – dice –, un po’ per alcune esperienze che mi avevano già fatto capire come l’imprevedibile sia sempre in agguato. Il disastro di Chernobyl, per esempio, che mi capitò di vivere abbastanza da vicino, dato che nel 1986 mi trovavo a Varsavia. Fu quella la prima volta in cui mi accorsi che anche noi, come i nostri nonni durante la guerra, ci stavamo misurando con qualcosa di inconcepibile. Allora mi sembrava che l’esplosione di una centrale nucleare potesse bastare per dare forma a una generazione, ma evidentemente mi sbagliavo». Profondo conoscitore delle culture mitteleuropee (alle quali ha dedicato libri come Vado a vedere se di là è meglio e, appunto, Chernobyl, editi entrambi da Sellerio) e a lungo responsabile di importanti case editrici, da alcuni anni Cataluccio cura il programma culturale dei Frigoriferi Milanesi. Aveva pensato di approfittare del lockdown per portare a termine un lavoro progetato da tempo, ma da Bellinzona è arrivata la proposta di un saggio sull’emergenza coronavirus ed è così che è nato In occasione dell’epidemia (Casagrande, pagine 130, euro 14,50). «Non lo definirei un diario – precisa l’autore –. Lo considero piuttosto un tentativo di mettere ordine tra letture, dati di cronaca, ricordi personali».

Qual era invece l’argomento del libro che ha dovuto accantonare?

Le Wünderkammer, le “stanze delle meraviglie” che dal Rinascimento italiano si diffondono in tutta Europa. È un tema che mi affascina, ma sul quale, nelle scorse settimane, non riuscivo a concentrarmi. Mi pareva che fosse più urgente fare i conti con alcune mie paure, come la fobia per gli armadi, o riprendere in mano lo studio di Millard Meiss sulla Pittura a Firenze e Siena dopo la Morte Nera, nel quale lo storico dell’arte statunitense avan- za un’ipotesi che oggi mi sembra più convincente che mai.

Quale?

Quella per cui la pestilenza del 1348 influisce sull’arte toscana non in termini regressivi, come si è spesso sostenuto, ma riproponendo una visione della mondo che, in quel momento, aiuta ad affrontare lo smarrimento causato dalla sciagura. Nelle opere dell’Orcagna per Orsanmichele a Firenze, in particolare, la maestà di Dio torna a essere raffigutato rata con una centralità che parrebbe contraddire l’impianto di Giotto, nei cui dipinti trovava espressione la centralità dell’essere umano. Questo, però, non è un passo indietro, non è una rinuncia. A suo modo, l’Orcagna non è meno realista di Giotto. Mostra un altro versante della realtà, semmai: quello della fragilità umana, del bisogno di Dio.

È quello che sta succedendo anche adesso?

In parte sì, anche se la sensibilità religiosa contemporanea si discosta inevitabilmente da quella medievale. Proprio per questo ho trovato molto coraggiose e molti significative le celebrazioni presiedute da papa Francesco durante la fase più acuta della pandemia: la Via Crucis con le preghiere dei carcerati che risuonavano in una piazza San Pietro deserta, la Messa pasquale nella basilica vuota. Lì, a mio avviso, il Papa si è fatto carico dello smarrimento di molti. Solo chi è indifferente a Dio non sente l’urgenza di interrogarne il silenzio.

Ora che cosa dobbiamo aspettarci, secondo lei?

Un cambiamento ci sarà, è indubbio, ma non sono affatto convinto che “nulla sarà come prima” o che ne usciremo necessariamente migliori. Ci sono, invece, molti aspetti su cui occorre vigilare. Prendiamo il caso delle tecnologie, che pure si sono dimostrate fondamentali in questa situazione. C’è chi si è affrettato a condannare la globalizzazione, è vero, ma è stata proprio la rete globale delle comunicazioni a garantire non solo la condivisione delle informazioni scientifiche, ma anche la possibilità di tenere vivi i rapporti interpersonali. Finora il fatto di restare in connessione con gli altri ci ha fatto sentire meno soli e questo è stato un bene, non si discute.

Però?

Però adesso abbiamo bisogno di riscoprire il valore del rapporto diretto, del contatto fisico. Pensi, di nuovo, a quello che sta succedendo nel campo dell’arte. La visita virtuale a una mostra o a un museo può essere di conforto, ma non basta. Al Prado o agli Uffizi bisogna andarci di persona, prima o poi. La questione è ancora più delicata se pensiamo ai rapporti umani. L’impressione è che, in questi giorni, si sia tornati a uscire, ma non ancora a incontrarsi.

Quel che conta è ripartire, si dice…

Sì, ma è quanto ha sostenuto, tra gli altri, il sindaco Sala, quando ha affermato che Milano è come una bicicletta: se si ferma, cade. Mi permetto di dissentire, almeno in parte. Non sempre per mantenere l’equilibrio è necessario spingere, forzare. Da ragazzo ero un grande ammiratore di Antonio Maspes, un ciclista maestro nel surplace. Era capace di restare pressoché immobile su due ruote per minuti e minuti, fino a sfiancare l’avversario. La sua era una straordinaria prova di resistenza, la stessa resistenza di cui abbiamo sentito la mancanza nelle giornate più drammatiche, quando i posti in terapia intensiva si andavano esaurendo e veniva alla luce la debolezza delle nostre città, a partire dalle più ricche e, in apparenza, meglio organizzate. Praticare il surplace non è facile, richiede applicazione e pazienza. Come abbiamo avuto modo di sperimentare, anche per restare fermi serve molto allenamento. Eppure, in un modo o nell’altro, abbiamo imparato a stare in equilibrio. È un’arte che, d’ora in poi, non possiamo più dimenticare.

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