venerdì 19 marzo 2021
Nel nuovo romanzo Alessandro Zaccuri trova la possibilità di giungere a una rivelazione che si potrebbe chiamare anche “resurrezione”, in un’ottica di rinnovamento quotidiano
"Adorazione dei Magi nella neve di Pieter Brugel il Vecchio" (1563), conservato al museo di Winterthur

"Adorazione dei Magi nella neve di Pieter Brugel il Vecchio" (1563), conservato al museo di Winterthur - WikiCommons

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Tra i narratori italiani Alessandro Zaccuri sta consolidando la propria presenza in un’ottica innovativa che non segue i canoni stabiliti dal mercato editoriale, ma va alla ricerca di una dimensione morale che lo porta sempre di più verso tradizioni “alte”, sia per qualità stilistica, sia come scelta di avere un luogo d’elezione in cui giocare a specchio la sua narrazione, così da usare la chiave dell’enigma, non in senso strumentale, ma come condizione per dare risposte a quel gioco di luci e di ombre che creano la consistenza del destino di ognuno. Lo dimostra appieno attraverso la perfezione del suo ultimo, breve ma intenso romanzo (La quercia di Bruegel; Aboca, pagine 168, euro 15,00), dove si avvicina sempre di più, riportandola nella nostra contemporaneità narrativa, a una tradizione che è quella cui fa capo Borges, in cui erudizione e ricerca non risultano giochi linguistici, ma possibilità di decifrazione o ancor di più di svelamento di una condizione di buio fram- mentato, distonico, che proprio attraverso l’accidentalità di una condizione trova la possibilità di giungere a una rivelazione che si potrebbe chiamare anche “resurrezione”, in un’ottica – e qui sta la novità esemplare del senso che lo scrittore gli riserva – di rinnovamento quotidiano, una resurrezione che per giungere al suo compimento finale, ha bisogno dell’esercizio del tempo.

Il racconto si apre e si chiude su due momenti di incertezza e di disorientamento della nostra storia più recente, due “emergenze” che portano, a distanza di anni, ad una diversa reclusione: gli attacchi terroristici e la pandemia. La prima fa incontrare, a Bruxelles in un albergo, uno scrittore che ha scelto di attribuirsi «la statura di un Pessoa del luogo comune, di artista elusivo dell’eteronimo e della banalità», ma che «ha sempre saputo che era una pietosa menzogna a uso personale» e che scrive romanzi sulle vite degli artisti, e una donna, un medico. Entrambi nutrono un interesse per Bruegel: lui perché l’editore è entusiasta del prossimo progetto romanzesco, Bruegel e i suoi figli, e sta facendo alcune ricerche; lei perché l’artista è al centro di un caso clinico che sta seguendo. Non possono uscire, perché la città è blindata e inizia tra loro un dialogo che porta la donna a coinvolgerlo in una storia legata ad un caso che sta seguendo. Infatti usa un metodo che la porta a sottoporre i pazienti a dei test tramite le arti figurative: la reazione a precise immagini può aiutare a delimitare il disturbo di percezione del paziente.

Così il racconto della storia di Massimo porta a riflettere sulle opere di Bruegel, soprattutto quando entrano in scena i disegni che lui fa, dopo aver osservato i quadri, accentrando l’attenzione sulla presenza degli alberi, a volte quasi impercettibili sulle tavole. Una storia, quella che Zaccuri racconta, che incrocia enigmi, pone domande, permette riflessioni sulla grande arte del pittore, mediata dalla “cecità” di Massimo, che però riesce a trovare un punto di luce, un’apertura, proprio osservando alcuni particolari. Anche lo scrittore, che si accontenta di una mediocrità che gli permette di sopravvivere, trova una diversa verità quando verrà messo di fronte ad una rivelazione, la sera stessa alla fine del colloquio, e scoprirà che Matilde e Massimo hanno un legame d’amore.

Trascorre del tempo prima che lo scrittore e il medico si rivedano, in un parco a Milano, nei giorni grigi della chiusura forzata. Ancora una volta Bruegel riporta la luce, con una scoperta: il legno delle tavole su cui dipinge è di quercia. Ciò pone nuova evidenza sulle percezioni di Massimo, sul suo sguardo, il solo che può rivelare la natura dell’albero. E insieme annuncia una sorta di speranza per il nostro destino, che annienta ogni enigma, come può fare «un legno che non sarà mai vinto dal ferro, né dissimulato dalla maestria del pittore». Il finale mette a fuoco la vanità della ricerca: «Non ci sono segreti da svelare, basta la realtà. Dura come la tavola di quercia, leggera come un’ombra di colore».

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