domenica 19 luglio 2015
COMMENTA E CONDIVIDI
La prosa del primo Novecento presenta una parabola netta: dai Buddenbrook. Decadenza di una famiglia, 1901, di Thomas Mann, romanzo che inaugura il XX secolo, all’Uomo senza qualità di Musil, dalle parabole di Kafka agli Ultimi giorni dell’umanità di Karl Kraus (senza contare l’immenso memoriale di Joyce e di Proust), il narrare europeo del XX secolo si piega su una 'coscienza della fine' che accompagna, del resto, il parallelo processo storico di saggi quali Il tramonto dell’Occidente, 1918-1923, di Oswald Spengler o La crisi della civiltà, 1935, di Johann Huizinga. Dovendo qui raccogliere in un trittico finale l’eredità europea del Novecento, credo sia più fecondo uscire dalla dialettica, bene enucleata da Musil, tra un costante «accrescimento della mia tensione» e il «gusto insipido del fallimento» (L’uomo senza qualità, parte III: Abbozzi e frammenti) che è ben radicato anche in Italia nelle pagine di Senilità di Svevo.  L’eredità del secolo è altrove: in ciò che, assunta la rovina, la 'terra desolata' descritta da Eliot, pure non abbandona mai l’umanità, addita un punto di perfezione, foss’anche un umile merletto: «Umanità: nome dagli incerti domini, / inconfermata sostanza di felicità: // […] / Attraverso uno strappo, una lacuna del destino / hai sottratto al tuo tempo la tua anima» (R.M. Rilke, Il merletto, da Neue Gedichte; come non ricordare La merlettaia di Vermeer?). Il pellegrino d’Europa, Rainer Maria Rilke [Praga 1875 - Montreux 1926], è stato colui che, viaggiando senza posa da Ronda a Mosca e San Pietroburgo, da Venezia a Parigi, da Berlino a Capri, dalla Svezia al Nilo, ha raccolto l’anima della nostra civiltà, accostandosi alle vestigia del passato e alla voce del proprio presente (incontrando Rodin e Tolstoj, Ferruccio Busoni e Robert Musil, Gide e Freud, e tanti altri pensatori e artisti), sì da «non avere patria dentro il tempo»: und keine Heimat haben in der Zeit. Non è forse tale il 'vivaio delle comete'?; un poter dire: «La vita è questo. Finché da uno ieri / ascende la più solinga delle ore / […] / all’eterno s’accosta - senza verbo» (Le poesie giovanili, esergo).  San Francesco e Michelangelo emergono dal Libro della vita monastica, l’umiltà e la gloria: «L’età di Michelangelo / di cui lessi in libri stranieri! / L’uomo che varcando ogni limite / obliò, gigante, / l’incommensurabile »; e insieme quella gratuità che è 'Rose der Rosen', rosa di tutte le rose, senza perché e senza fine, da Silesio a Rilke. Ma nel Libro della povertà e della morte, Rilke - che era stato ad Assisi nel 1914 - dispiega il principio di un’altra poetica (non quella dei 'phares' di Baudelaire o dei 'grandi iniziati' di Schuré), quella di un impalpabile 'polline del canto' che feconda il creato: «Dov’è chi trasformò tempo e ricchezza / in povertà […] / vissuto come un giovine anno / il fratello bruno dei tuoi usignoli, pieno di piacere, di meraviglia / e ardore per la terra? // […] // Veniva dalla luce a più profonda luce / e serenità era la sua cella. / […] // E quando morì, lieve, quasi / senza nome, si disperse: il suo seme / corse nei ruscelli, cantò negli alberi / e quieto lo guardò dai fiori. / Giaceva e cantava. […]». È un Orfeo della kenosis e della remissione al sacrario intimo: «La casa del povero è come un tabernacolo. / L’eterno vi diventa cibo / […] / La casa del povero è come la mano di un bimbo. // Come è la terra è la casa del povero». Una poetica che svilupperà nelle Neue Gedichte: «Vicino è solo il Dentro; tutto l’altro è lontano» (L’isola). Nah ist nur Innres: un’ascesi che sospinga nel 'corridoio minerario' dell’interiorità, come nel ritratto di Tintoretto (ricordato da Thomas Bernhard in Antichi Maestri), di Un doge: «Ciò che la Signoria // credeva in lui domare, egli lo aveva / domato in sé, nella sua testa bianca / vinto. E il suo volto dimostrava come».  Rilke resta soprattutto il poeta delle Elegie duinesi e dei Sonetti a Orfeo, due cicli che possono essere interpretati come 'Bäume Lebens' (Quarta Elegia), alberi della vita e chiome di desiderio nell’alto dei canti: «Vero canto è un altro alito, un alito che tende / a nulla. / Uno spirare nel Dio. Un vento» (Sonetti a Orfeo, I, III). Rilke ha dischiuso tutte le vie dell’ 'Aperto', per i poeti e, non meno, per i filosofi: «Con tutti gli occhi vede la creatura / l’Aperto » (Ottava Elegia, incipit). Das Offene: è una formula che ha attraversato il Novecento, sino all’ultima poesia di Paul Celan, prima della tragica morte: «Gli Aperti [die Offenen] recano / la pietra dietro l’occhio / ed essa ti riconosce / all’annuncio del Sabbath» (I VIGNAIOLI vangano). È un 'sabato' che 'In noi trabocca' (Ottava Elegia), anche se «così viviamo, in un continuo prendere congedo» (ivi, explicit).  E così il compito del poeta, dell’uomo, è quello di tornare a nominare il creato, non già novello Adamo di un Eden irrecuperabile, ma 'Wanderer', pellegrino di un Sabbath promesso e a venire: «Siamo qui forse per dire: casa, / ponte, fontana, porta, brocca, albero da frutto, finestra, - / al più: colonna, torre… ma per dire, comprendilo, / per dire così come persino le cose intimamente mai / credettero di essere» (Nona Elegia). E così il Dio che Nietzsche contempla morto, per Rilke è soltanto smarrito, 'infinita traccia' dell’avventura umana: «O Dio perduto! Tu traccia infinita!» (Sonetti a Orfeo, I, XXVI). O du verlorener Gott!: tutto il Novecento ha percorso o rimpianto questa quête, sino a Samuel Beckett.  Il Rilke ultimo, quello delle poesie in lingua francese, raccolte in Vergers [Verzieri], è non meno importante, all’orlo di un sommesso voto: «Que le Dieu se contente de nous», «Che Iddio di noi si contenti»; come nel Coeur simple di Flaubert, tutto si compie se in noi ricadiamo: «Voglio una sola lezione, la tua, / fontana che su te stessa ricadi» (La fontana); poiché «nessuno mai dilegua» (Verger, IV), ma si prepara all’invisibile, del quale Rilke è stato silente maestro: «Il sublime è una partenza. / Qualcosa in noi che invece / di seguirci si allontana / e si fa domestico al cielo» (Portrait intérieur, 33). È il viaggio 'en pure perte' che Michel de Certeau poneva a suggello della sua e di ogni vicenda terrena: «La jouissance / d’être un murmure encor / sous le regard du silence» (Rilke,  La dormeuse).
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: