domenica 2 febbraio 2014
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Ha conosciuto quasi tutti i grandi pensato­ri del Novecento da Pietro Prini a Lévinas, da Romano Guardini a Karl Rahner, da Au­gusto del Noce a Gustavo Bontadini, da Ré­mi Brague a Paul Ricoeur; si è dedicato so­prattutto alla storia della filosofia, al tema del trascendentale e del suo "amato Kant" e del personalismo non tralasciando mai, in ogni sua ri­cerca, di non abdicare dal suo ruolo di professore uni­versitario in dialogo perenne con i suoi studenti.
Descrive così il filosofo Armando Rigobello il suo Nove­cento e il traguardo dei suoi 90 anni che compie doma­ni (il 3 febbraio). Ricordi che lo portano a rievocare, nel­lo studio della sua bella casa romana, affollata di libri e di carte, in Borgo Pio, gli anni della contestazione, le Br, gli incontri inaspettati, grazie alla frequentazione della Fuci e dell’Azione Cattolica con personaggi lontani dal­la sua lunghezza d’onda come Toni Negri, Gianni Vatti­mo o Umberto Eco, la sua turbolenta permanenza nel consiglio di amministrazione della Rai dal 1977 al 1980, guidata dal leggendario impresario teatrale Paolo Gras­si.
«Nonostante i miei novant’anni cerco di vivere ogni giorno come se fosse il primo. Più che un teoretico mi sento uno storico della filosofia. Devo confidare non ho rimpianti su quanto avrei potuto approfondire, per e­sempio sullo studio di Agostino, di Newman o di Ed­mond Husserl - racconta l’anziano filosofo, originario di Badia Polesine nel Veneto - . Avrei potuto studiare di più ma anche di meno. Se sono diventato professore ordi­nario di filosofia e ho fatto di questo mestiere la mia ra­gione di vita lo devo al mio maestro dell’università di Pa­dova Luigi Stefanini che intuì per primo le mie capacità («lei ha una testa fatta bene») ma anche alla stima di uo­mini come Michele Federico Sciacca con cui mi con­frontai nel mio primo concorso da professore. Una cer­ta notorietà accademica mi arrivò, per la prima volta, con la pubblicazione del 1955 Il contributo filosofico di Em­manuel Mounier; si trattò di uno studio pionieristico sul pensiero di questo grande intellettuale che non era mai stato affrontato né in Francia né in Italia».
A dare una svolta alla sua carriera accademica fu so­prattutto la sua esperienza in Germania. Ci può spie­gare il perché?
«Vincendo la borsa di studio alla Alexander von Hum­boldt Stiftung a Monaco di Baviera mi si aprirono le pro­spettive non solo della carriera universitaria ma di re­spirare un’aria internazionale e di grande confronto con studenti provenienti da varie parti d’Europa. Fu vera­mente un’esperienza unica e irripetibile. Ricordo che proprio là conobbi Romano Guardini e che di fronte al mio stentato e bisbigliato tedesco per facilitare il collo­quio cominciò a parlarmi in dialetto veneto. Era vera­mente una persona amabile e di grande temperamen­to. Ed è proprio di quel periodo il mio approfondimen­to agli studi del trascendentale e di Kant. Nel 1963 il frut­to della mia ricerca tedesca approderà nella pubblica­zione I limiti del trascendentale in Kant ».
Tappe accademiche che La porteranno, professore, a insegnare in vari atenei da Perugia, La Sapienza a Ro­ma fino a diventare uno dei fondatori della facoltà di filosofia a Tor Vergata...
«Sono stati anni di grande lavoro e confronto accade­mico. A Perugia mi trovai a contatto diretto con Pietro Prini; tra l’altro seguii la tesi come correlatore di quello che considero un dei miei più riusciti allievi Dario An­tiseri. Come non posso dimenticare cosa significò per me giovane accademico confrontarmi con l’irruenza , il rigore ma anche l’umanità di un uomo non facile come Cornelio Fabro. Di lui faceva impressione la conoscen­za che aveva di Tommaso d’Aquino. Del periodo roma­no mi tornano in mente i difficili anni della contesta­zione, del 1968 e di come per un periodo mi fu impedi­to addirittura di insegnare e di come gentilmente i miei allievi mi portavano a casa la posta che non potevo riti­rare in facoltà. Sono stati anni difficili dove addirittura nel periodo più buio del terrorismo ricevetti anche delle minacce di morte solo perché mi chiamavo Ri­gobello. Come certamente fu arricchente la mia e­sperienza all’interno del consiglio di amministra­zione della Rai. Rammento che mi trovai spesso in sintonia con la figlia di Benedetto Croce, Elena. Di solito venivo consultato su temi che riguardavano la morale o argomenti attinenti al cattolicesimo. For­se per la mia poca conoscenza dei mezzi televisi­vi mi sentii un po’ come una voce fuori dal coro. E poi certamente inconsueto per un cattedra­tico come me fu l’essere invitato, uno dei po­chi laici, nel 1985 a Loreto per il convegno ec­clesiale della Cei. Fu l’insistenza dell’allora segretario della Cei, monsignor Egidio Ca­porello a convincermi a partecipare. Ricor­do ancora il titolo del mio intervento 'Il vol­to della società italiana'. Di quell’evento mi colpì soprattutto la forza carismatica di Gio­vanni Paolo II e la svolta che seppe imprime­re alla conclusione di quel turbolento conve­gno ecclesiale».
Un incontro fondamentale della sua vita di fi­losofo è stato quello con Paul Ricoeur. Ci può spiegare il perché?
«Nel mio piccolo mi sono prodigato a far conosce­re in Italia il suo pensiero ad un vasto pubblico. Ri­cordo che, pur non parlando in italiano, lo capiva be- nissimo. In lui ho sempre intravisto un continuatore i­deale del personalismo comunitario di Mounier come proprio per la sua formazione protestante mi ha sem­pre colpito il suo 'pudore della testimonianza' che ha sempre messo in evidenza per la sua attenzione al tra­scendente e all’importanza che nei suoi scritti ha dato all’esegesi della Parola».
Qual è il bilancio che si sente di tracciare sui suoi 90 an­ni professore? 
«Come filosofo cattolico che non si chiude mai in se stes­so penso che la sfida più stringente che ci attende è quel­la di coniugare un sano rapporto tra la fede e la scienza. E imparare a scendere dalla propria cattedra, certezze accademiche e ad ascoltare chi è diverso da noi. In una parola fare propria la lezione di Emmanuel Lévinas: 'Sta­re in silenzio di fronte all’altro'. Mai come in questo nuovo secolo la maniera di concepire la razionalità stes­sa e la modernità è cambiata. In un certo senso di fron­te all’idolatria del progresso e della scienza c’è stato, co­me direbbe Maritain un 'inginocchiamento davanti al mondo'. Mi vengono spesso in mente le parole di Joseph Ratzinger quando parla di un 'allargamento della ra­gione' per interpretare questa sfida e per opporsi a que­sto relativismo dilagante. C’è il pericolo che un eccesso di razionalità nella scienza rischi di trasformarsi come qualcosa che per forza deve essere anticristiano e dove so­prattutto la nostra religione rivelata venga percepita co­me qualcosa che è contro la modernità. La fede non è mai contro il progresso anche alla luce delle nuove scoperte. Credo che la scienza non è ancora in grado di spiegare il tutto. Per questo forse ritengo che una vecchia disciplina come la filosofia proprio per il suo amore e tensione al ve­ro possa ancora rappresentare l’anello di congiunzione tra i vari saperi».
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