giovedì 14 settembre 2017
Un approccio rivoluzionario all'ambiente: nella società dell’“homo detritus” «la spazzatura non è il male assoluto; gli uomini creano residui perché sono vivi. Bisogna usarli bene»
Il filosofo Baptiste Monsiangeoin

Il filosofo Baptiste Monsiangeoin

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«Il problema dei rifiuti è centrale dalla svolta ambientalista degli anni ’70», scrive il filosofo Baptiste Monsaingeon nel suo Homo detritus. Critique de la société des déchets (pagine 288, euro 19,00) appena pubblicato in Francia dall’editore Seuil. Ora è giunto il momento di sottoporre i rifiuti a disamina filosofica. E lo studioso del Cnr d’Oltralpe (che sentiamo mentre è al lavoro in Asia Centrale), dopo aver preso parte alla prima spedizione per la ricerca sui detriti plastici nell’Atlantico del Nord, lo ha fatto.

Che cos’è il rifiuto, professore?

«Che lo si affronti da una prospettiva filosofica o storica, è un problema che non trova risposta stabile: non è possibile essenzializzare i rifiuti senza rinunciare a ciò che con questa parola si designa. In altre parole, non c’è un’essenza dei rifiuti ma si può presumere che i rifiuti siano un rifiuto qualcosa. Ciò che per me, qui e ora, è uno spreco può invece essere un oggetto desiderabile o di valore in un altro contesto storico o culturale ».

È così difficile quindi trovare una sua definizione?

«Bisogna aspettare la metà degli anni ’70 per vedere le prime definizioni giuridiche di rifiuti. E forse proprio l’impossibilità di definirli in sé e per sé spiega le difficoltà in cui si sono imbattuti gli avvocati per ottenere una definizione legale di rifiuti. In Europa, rifiuto è qualsiasi quantità di materiale di cui il possessore si disfa o prova a disfarsi ».

Perché i rifiuti sono ritenuti i sintomi della crisi del mondo contemporaneo?

«I nostri rifiuti sono ovunque anche dove meno te lo aspetti. Recentemente ne abbiamo trovati nelle profondità della Fossa delle Marianne, su un atollo perso nel Pacifico o sulle coste del Mar glaciale artico. L’onnipresenza dei resti del consumo giornaliero in aree considerate incontaminate è il segno indelebile della presenza umana sulla terra».

Detto con altre parole?

«Per i geologi specializzati in stratigrafia sono i nostri rifiuti, solidi o gassosi che siano, come le bolle di Co2 presenti nei campioni di ghiaccio o tracce di isotopi radioattivi dovute a esplosioni nucleari, a costituire la prova dell’entrata in un nuovo periodo geologico chiamato Antropocene. Se accettiamo questa definizione si potrebbe dire che l’Antropocene è in realtà un “Pattumieracene”. Resta da capire però di quali rifiuti parliamo e quali sono le società e gli uomini che ne sono all’origine...»

Chi è l’homo detritus di cui parla?

«Non bisogna associare all’entrata nell’Antropocene l’emergere di una nuova specie umana: l’homo sapiens ha ancora un futuro davanti a sé! Con il termine homo detritus alludo a una forma di soggettività incoraggiata in Europa dalla svolta industriale del XIX secolo. Se faccio dell’homo detritus il volto nascosto dell’homo oeconomicus è per sottolineare che ne rappresenta lo specchio invisibile».

Può spiegare meglio?

«Alcuni economisti neo-classici a partire dalla metà del XIX secolo hanno cercato di naturalizzare l’uomo assimilando un essere razionale che cerca di massimizzare il profitto: se l’homo oeconomicus è il consumatore “ideale”, allora l’homo detritus dovrebbe essere il “gettatore” ideale cioè colui che è in grado di gettar via in “modo buono”. Col mio lavoro voglio mostrare come il problema dei rifiuti non debba essere separato dal problema della produzione ovvero dalle scelte politiche, economiche e tecniche che strutturano le società contemporanee ».

Perché l’uomo cerca di liberarsi dei rifiuti? È solo una preoccupazione ecologica?

«Una delle caratteristiche cruciali nella storia dei rifiuti è legata all’avvento dell’igienismo, il modello ideologico dominante nello sviluppo delle politiche pubbliche urbane, soprattutto in Europa. Facendo del rifiuto una quantità di materiale destinata all’abbandono, rinchiuso in scatole o sistemato nelle discariche, sulla soglia dei nostri spazi abitativi, stiamo facendo un gesto volto a realizzare l’ideale di purezza accarezzato dall’igienismo. La ricerca di purezza informa la storia della modernità, in quanto essa prova a isolare le nostre produzioni residuali da una “natura” che si vuole controllare per meglio possederla. Lo sforzo di cancellare le nostre tracce inquianzitutto nanti prolunga paradossalmente questa ricerca di dominio tecnico».

Insomma i progetti di economia circolare fondati sul selezionare, ridurre, riutilizzare, riciclare, sono fallimentari?

«Dicendo così si fa confusione. L’ideale “zero rifiuti” è uno slogan. È rischioso quindi raccogliere tutti i progetti che vi si richiamano sotto uno stesso prisma critico. Tra coloro che chiedono una società “senza sprechi” o un’economia veramente circolare troviamo di tutto, dalle multinazionali ai gruppi militanti per la decrescita. È vero che cercando di isolare dalle produzioni della tecnosfera quelle della biosfera, alcuni principi dell’economia circolare prolungano il gesto moderno di separazione tra “natura” e “cultura”, un gesto che ha autorizzato alcune imprese industriali ad appropriarsi di alcuni beni comuni globali, a inquinare per appropriarsene».

Non le sembra di fare di tutta l’erba un fascio?

«Anzi, proprio il contrario. Evito la confusione. Quello che trovo discutibile nel termine “zero rifiuti” è la malcelata condanna della spazzatura come il male da abbattere, quando invece mi sembra più decisiva una critica ai modelli economici dominanti, ad alcune scelte tecniche o politiche».

Cioè?

«Per dirla in breve, gli esseri viventi sono macchine escrementizie, sono vivi in quanto producono residui escrementizi. Quindi invece di coltivare la speranza di non sprecare nulla, penso sia più interessante guardare a coloro che cercano di “fare il mondo con i loro resti”, a coloro che davvero si rimboccano le maniche, e sono tanti!».

Per esempio...

«A volte sono militanti, a volte responsabili pubblici. Penso ai comuni Zero-Waste, in particolare a Capánnori, in provincia di Lucca, che è un modello per molte piccole città in Europa: sono loro i soli capaci di stabilire quali sono i rifiuti con cui è ancora possibile “fare mondo”, e quelli di cui invece è imperativo proibire la produzione».

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