giovedì 28 aprile 2016
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Non ha alcun senso separare, in noi, l’essere umano che pensa o sente dall’essere umano che lavora. Fare, fare cose, produrre attivamente, lavorare con dedizione, è una maniera di edificare il mondo e di realizzare creativamente l’incontro con gli altri e con noi stessi. Anche il lavoro in apparenza più semplice offre a chi lo fa, oltre al mero aspetto materiale, una possibilità di senso. Ma questo, un workaholic non lo sa. Può sembrare esile il filo che separa un workaholic da un lavoratore altamente motivato e con prestazioni eccezionali. Non inganniamoci, però: la distinzione è ben reale. Il workaholic è divenuto patologicamente dipendente dal lavoro. Gli sacrifica tutto e tutti. È una dipendenza considerata 'rispettabile', dal momento che ancora non viene vista socialmente come una turba, né associata a sofferenza e a pesanti costi umani. Ma di questo si tratta. Si tende a prendere per normale una patologia che sta divenendo statisticamente frequente. È una realtà che ci deve far pensare. Per un workaholic , il lavoro ha cominciato con il rappresentare la realtà più importante della vita, ed è poi ben presto passato a essere la vita. Nel suo racconto La metamorfosi , Franz Kafka tratteggia un quadro impressionante della questione, che va letto anche dal punto di vista psicologico: «… il padre [di Gregor] non voleva togliersi l’uniforme nemmeno in casa; la vestaglia rimaneva appesa nell’armadio e lui dormiva, vestito di tutto punto, in poltrona, come se fosse sempre in servizio e aspettasse anche lì la voce di un superiore». Molti padri sono così. Sfuggenti nella quotidianità, tendenzialmente astratti, pronti a fare promesse per il primo fine settimana possibile (a meno che non accada poi che siano troppo stanchi od occupati). Esibiscono un’ambizione smisurata e inflessibile che mortifica ogni aspetto che abbia a vedere con la gratuità delle relazioni e un’effettiva condivisione della vita degli altri. Le giornate del workaholic sono sempre più lunghe, ma sempre troppo brevi, e si esauriscono in una interminabile successione di compiti, molti dei quali autoimposti, senza una finalità visibile, che reclamano un’attività frenetica e una velocità ossessiva quanto basta perché tutto il resto passi in secondo piano. Gli elevati livelli di adrenalina richiesti da tale esercizio amplificano una certa illusione di onnipotenza. La messinscena viene protetta dall’occupazione maniacale di tutti i buchi nell’agenda. Lo si chiami surrogato, armatura, scudo protettore, compensazione, oblio, pretesto: tutti nomi effettivamente coerenti con tale modalità di essere impegnati. Quando l’attività professionale diviene l’asse intorno al quale tutto, letteralmente, ruota, ci troviamo in presenza di una fuga, una paura, un vuoto di altra natura che si resiste ad affrontare. L’iperattivismo, il perfezionismo e il narcisismo collegati alla dipendenza dal lavoro sono sintomi lampanti, anche quando non li vogliamo vedere. Naturalmente tutto ciò prima o poi produce delle conseguenze: la rottura con il mondo sociale e l’autoesclusione. Essere presenti agli altri dapprima si rivela una cosa difficile a organizzarsi, poi diviene ben presto impossibile anche solo a pensarsi. L’orizzonte della vita personale e familiare si riduce sempre più, fino ad apparire insignificante. La dimensione affettiva rimane catturata dall’idea del successo professionale, inseguito in modo compulsivo, e dall’apparato esteriore di potere che da esso risulta. Come ricorda Luigi Ballerini, questa è una patologia che può ferire tutti, uomini e donne, in qualsiasi tipo di professione: top manager e casalinghe, liberi professionisti e amministratori, professori o commercianti. A nessuno l’immunità è garantita. Con un problema aggiuntivo: al giorno d’oggi è il sistema stesso del lavoro a essere diventato workaholic . Nelle sue attese, in ciò che incentiva o in quel che premia. Una delle cose che dobbiamo rivedere, come società, è l’etica del lavoro. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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