venerdì 30 maggio 2014
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L’opera di Gerhard Richter è una sfida a chiunque voglia tentare di definire la pittura. L’artista ne ha esplorato tutte le possibilità: fotorealismo, astrazione gestuale e analitica. Una volontà quasi ricapitolativa (in decenni che volevano la pittura come obsoleta) fatta di percorsi paralleli e apparentemente opposti portati avanti con coerenza in 60 anni di carriera. Figura/astrazione, grigio/colore, piccolo/monumentale non sono però elementi di una polarizzazione bensì di una dialettica, di un discorso attorno al reale e alla pittura stessa. La Fondazione Beyeler a Basilea dedica a Richter una personale, a cura di Hans Ulrich Obrist, centrata sulle serie e i cicli: un metodo di lavoro che il pittore – more solito – fa coesistere con l’elaborazione di opere singole, poste in mostra a contrappunto rivelatore.

Richter è celebre soprattutto per i suoi dipinti che riproducono fotografie con un magistrale effetto di sfocatura. Uno sfocato che però non è fotografico ma sempre pittorico: è un problema cioè di luce e non di dettaglio. Il ciclo 18 Oktober 1977 (1988), dal MoMA, dedicato alla cattura e alla morte dei membri della banda Baader-Meinhof, condensa simbolicamente i dipinti "grigi", da cui costituiscono il commiato. È un lavoro epocale, in cui Richter si confronta con il problema antico della pittura di storia nell’epoca dell’informazione di massa. Pittura senza centro, senza ancoraggi. Ogni punto a cui fissarsi cede nel momento in cui lo si agguanta. C’è un’affinità in un certo senso con Giacometti e quel suo tentativo perennemente frustrato di cogliere la figura umana, che si sgretola sotto le dita. L’inafferrabilità della pittura è impredicabilità del reale. La morgana della rappresentazione è quella della conoscenza. In Richter l’esplorazione dell’effimero non si fa però elegia. Proprio nel momento in cui si distrugge, l’immagine diventa rivelatrice.

È ciò che rende coerenti lavori così diversi. È così per i dipinti astratti, realizzati "stirando" sulla superficie già dipinta una grande spatola. I colori a cascata slittano da una parte all’altra, si corrugano, si deformano. Tra le maglie e le imperfezioni di questa cortina balugina la materia. L’effetto di questi dipinti è quello di lastre metalliche sottoposte a bagni chimici, schermi spalmati di sali e corrotti. A differenza dei cicli figurativi, questi gruppi, come il lirico Bach (1992), Wald (2005) cupo e romantico, e Cage (2006), ispirato dalle musiche del compositore statunitense, costituiscono nuclei unitari, come un vero e proprio ambiente. Negli abstrakt bilden Richter lavora sulle tele in contemporanea, a partire da una stessa idea. Nascono quindi come coesistenza istantanea e non contraddittoria di molteplicità possibilità del reale. Sono quadri che si sviluppano insieme, fuori da un piano prestabilito ma direttamente nel loro farsi. Dipinti che hanno persino maggiore attinenza con la realtà rispetto a quelli fotorealistici, perché ne riproducono l’imprevedibiltà e la totipotenza dei processi.

Il monumentale 1024 colori, del 1973, pezzo di apertura della mostra, è una vibrazione inafferabile (nella relazione che si crea e si distrugge tra le impersonali aree di colore) nella rigida griglia modernista. Anche questa è pittura senza ancoraggi, a differenza, ad esempio, delle analoghe tele coeve di pittori come Stella e Noland. Quelle di Richter sono opere aperte, dove ogni tentativo di ingresso e approfondimento si risolve non nella sintesi ma in una moltiplicazione delle possibilità. È il caso delle recenti Stripes, evoluzione dei campionari di colori. L’immagine è il frutto di una manipolazione digitale di frammenti di un dipinto astratto, rispecchiati e moltiplicati fino a ottenere sottilissime bande di colore, estese su pannelli lunghi fino a 10 metri. Osservate a distanza ravvicinata, queste sequenze ipnotiche non solo annullano tempo e spazio ma sembrano continuamente aprirsi in nuovi livelli, prima nascosti, all’infinito.

Queste opere vivono quindi della tensione tra l’ambizione alla bellezza perfetta e l’impossibilità di definire di un processo il termine compiuto. La serie S. mit Kind del 1995, in cui ritrae la moglile Sabine con il figlio, riprende l’iconografia della Vergine col bambino. Ma la magia di quel momento di memoria famigliare svanisce. L’immagine si accartoccia, perde la pelle. Non è il solo riferimento a iconografie antiche. Il Teschio (1983) e la Candela (1982) sono richiamo alle vanitase alla pittura di La Tour. Iceberg nella nebbia contiene tutto il senso dell’infinito di Friedrich. Mentre una gara a distanza con Vermeer sembrano ritratti come Betty e soprattutto Lesende (1994), ancora la moglie mentre legge. Ma è una gara che Richter dichiara persa in partenza. Quella perfezione, meta definitiva e agognata, è stata raggiunta nel passato e non lo è più. Ogni dipinto è una dichiarazione di resa e insieme un impulso a ricominciare. Quasi programmatica è la bellissima serie dedicata all’Annunciazione da Tiziano, del 1973. Richter vede il dipinto a Venezia e decide di farne una copia per sé. Ma il tentativo fallisce. Se nel primo quadro l’immagine ha ancora una sua resistenza, negli altri la scena si dissolve di volta in volta in un turbinio o in una nebbia di moti, colori, aloni. Il messaggio angelico si è perso per sempre. L’immagine resta dominio del dubbio e dell’attesa.Basilea, Fondazione BeyelerGerhard RichterBilden/SerienFino al 7 settembre
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