sabato 27 giugno 2020
Idee per il futuro nei saggi del sociologo, che sprona al cambiamento per fermare la “spirale del sottosviluppo”, e del giuslavorista, che propone tre vie per l’urgenza occupazionale
Allievi e Ichino: resilienza e intelligenza, così l'Italia si salverà

Solinas

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«Ora e sempre, resilienza». Quando si è sperimentata, tra i primi Paesi al mondo, una pandemia con decine di migliaia di morti, si sono passati quasi tre mesi di blocco totale delle attività, all’orizzonte si staglia l’iceberg di una caduta del Pil mai sperimentata e non è stata ancora tracciata una rotta certa per evitarlo, non esiste forse uno slogan migliore. Insieme utopico e realistico, riformista e rivoluzionario. Perché assorbire il trauma del disastro coronavirus e ripartire con una serie di riforme per imboccare finalmente la strada di uno sviluppo più equilibrato e vigoroso rappresenta al tempo stesso un miraggio e l’unica cosa che possiamo cercare di fare in quest’Italia che si è persa, ormai da decenni, ne La spirale del sottosviluppo come si intitola il saggio di Stefano Allievi, docente di sociologia e direttore del master in “Religions, politics and citizenship” dell’Università di Padova pubblicato nella collana “Tempi Nuovi” da Laterza (pagine 200, euro 15,00). Lo slogan con cui Allievi conclude la premessa, inserita assieme alla postfazione mentre il Paese si fermava per il Covid, dà la misura dell’eccezionalità della sfida che ci troviamo ad affrontare. Non solo far rialzare l’economia e la società da una caduta traumatica, provocata da fattori esterni, ma interrompere l’inesorabile discesa agli inferi dell’Italia per la quale, nonostante in molti ci provino a inventarne, non ci sono capri espiatori esterni da incolpare. Si tratta, piuttosto, del frutto di decenni di nostre scelte sbagliate, di cecità rispetto ai reali problemi e di cambiamenti culturali inesistenti o troppo lenti ad affermarsi.

La fotografia della struttura economica e sociale dell’Italia che il docente compone – dato dopo dato, analisi dopo analisi – è spietatamente nitida e illustra chiaramente «perché (così) l’Italia non ha futuro», come recita il sottotitolo. Tanto da far persino dubitare il lettore che la spirale possa essere davvero interrotta, che la discesa possa trovare un “fondo” da toccare e dal quale rilanciarsi verso l’alto, lo sviluppo, il progresso sociale. Il saggio di Allievi, però, scritto con chiarezza senza indulgere in tecnicismi, non è (troppo) pessimista. Semmai pervaso da quell’ottimismo della volontà che porta il sociologo a trarre dai dati fortemente negativi illustrati in ogni capitolo la chiave stessa per cambiare direzione, indicando nelle conclusioni una serie di piste concrete sulle quali incamminarsi e agire per invertire il senso della spirale. Soprattutto, però, il merito di questo libro è quello di mettere in connessione i deficit del Paese nei vari campi, dimostrando come essi siano appunto strettamente interconnessi, e come all’inizio della catena che oggi ci trascina verso il sottosviluppo ci sia l’anello fondamentale della crisi demografica. «Siamo un Paese che muore, ma lentamente, invecchiando, assopendosi, spegnendosi, consumandosi goccia a goccia come una candela – scrive Stefano Allievi –. E che, in questo processo, perde progressivamente di energia, di vitalità. Quel che è peggio – come spesso accade ai vecchi – senza nemmeno accorgersene, senza consapevolezza di quel che sta accadendo al proprio corpo e al proprio spirito». Da questa crisi, da questa nostra sclerosi fisica e spirituale, derivano o sono correlate poi le difficoltà su immigrazione di stranieri ed emigrazione dei nostri giovani, i deficit dell’istruzione e gli squilibri del mercato del lavoro.

E proprio su quest’ultimo tema che viene in soccorso un altro libro pubblicato in queste settimane: L’intelligenza del lavoro di Pietro Ichino (Rizzoli, pagine 266, euro 18,00). Il giuslavorista, protagonista di tante battaglie e proposte di legge, lascia da parte gli strumenti giuridici, il dibattito oggi piuttosto stantìo sui licenziamenti, per ribadire la necessità di un cambio culturale, di un ribaltamento del paradigma della tradizionale subordinazione dei lavoratori rispetto alle imprese, chiamando gli uni, le altre e soprattutto le loro rappresentanze a un nuovo e diverso protagonismo, a una sana concorrenza e collaborazione per assicurare migliori tutele, capacità di adattamento e vantaggi competitivi a tutti i soggetti e dunque al Paese. Il cambio culturale delineato si basa in sostanza su tre idee forti. La prima è che la vera protezione efficace di chi lavora, cerca o perde un’occupazione non stia tanto nell’una o nell’altra legge, quanto nello sviluppo della capacità del singolo di trovare un lavoro attraverso, da un lato, una più ampia formazione continua e, dall’altro, «spianando e dotando della segnaletica necessaria i percorsi che conducono alle molte centinaia di migliaia di posti disponibili nel tessuto produttivo italiano che in genere rimangono scoperti», scrive Ichino. Si tratta di quella Skill shortage che, prima della pandemia, una ricerca di Unioncamere e Anpal stimava in 1,2 milioni di posizioni, pari ad oltre un terzo del numero dei disoccupati. Nella convinzione che la fine del lavoro sia una fake news e l’evoluzione tecnologica produca nuove occupazioni almeno tante quante ne distrugge o supera.

La seconda idea, la più rivoluzionaria, è che siano sempre più «i lavoratori a scegliere e “ingaggiare” l’imprenditore ritenuto più capace di valorizzare il loro lavoro; cosa che nelle crisi aziendali avviene anche in maniera collettiva», scrive il professore citando gli esempi, non sempre felici, di Alitalia, della Fca di Pomigliano o del-l’Ilva di Taranto. Infine, la terza idea è che per far crescere questo nuovo mercato, diciamo così bidirezionale, e far sì che produca effetti positivi sul nostro tessuto economico, occorre che si sviluppi una nuova «intelligenza del lavoro », una capacità di analisi dei problemi e di scelta, che i lavoratori dovrebbero acquisire sia a livello singolo sia collettivamente attraverso il sindacato. O meglio, i sindacati, soggetti plurali in concorrenza d’idee e di strategie nelle relazioni industriali, capaci di promuovere e gestire diversi modelli di partecipazione nell’impresa. Altre utopie o quantomeno modelli ideali e perciò stesso irrealistici, tanto più in una fase di profonda crisi come questa che stiamo vivendo? Forse. Ma non è proprio quando i tradizionali riferimenti vengono stravolti e mostrano tutte le loro crepe e fragilità, che occorre provare a costruire qualcosa di diverso, secondo un altro progetto, una nuova «intelligenza»?

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