sabato 12 aprile 2014
​Equilibrio di fronte alle perturbazioni: è la strada che il teologo Morandini indica all'Italia.
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Anticipiamo alcuni passi del volume di Simone Morandini Custodire futuro: etica del cambiamento. Il libro, in uscita per Albeggi (pagine 148, euro 15,00) sarà presentato lunedì a Roma presso Shenker Culture Club, in piazza di Spagna, 66. A partire dalle 18.15 con l’autore ci saranno il presidente di Anima Sabrina Florio, l’economista Leonardo Becchetti e l’autore della prefazione, l’ambientalista Walter Ganapini. In Custodire futuro Morandini, teologo e fisico docente nelle Facoltà Teologiche di Venezia e Padova (nella foto), riflette sul fatto che siamo le persone che siamo anche grazie a quanto riceviamo dalle generazioni precedenti e che il nostro agire è determinante per coloro che verranno dopo di noi. È, questa, la sua visione di “sostenibilità”, l’intreccio tra due dimensioni di giustizia: un’attenzione per le generazioni future e un’istanza di tutela dei beni comuni, fondamentale per il nostro essere “assieme di umani su un pianeta delicato”.Custodire è un verbo da articolare al fu­turo (nel segno del progetto e del sogno) e al plurale (nel segno della relazionalità e dell’attenzione per la complessità) [...]: tante sono le realtà da custodire, tute­landole contro un vento fatto di merci­ficazione disgregante, contro una cul­tura che non sa accogliere l’alterità.  È allora tempo di chiederci cosa significhi disegnare politiche della custodia in questa nostra Italia, in que­sti giorni feriti dall’incertezza. Di domandarci quali fronti impegnino le parole che abbiamo evocato, pa­role pesanti, parole generatrici di pratiche. Rispon­dere a tali interrogativi significa individuare alcune urgenze primarie del bene comune in questo tempo [...]; esso viene incontro quasi naturalmente a chi sa ascoltare il grido di un Paese diviso che ha visto anzi crescere in questo tempo di crisi la distanza tra grup­pi diversi, con l’impoverimento di vaste fasce della popolazione. È una distanza fatta certo di reddito – si pensi alla crescita continua del rapporto tra i com­pensi dei manager delle grandi aziende e i salari dei dipendenti – ma anche di ga­ranzie, di accessibilità a beni e servizi, di opportunità lavora­tive. C’è, insomma, una dise­guaglianza crescente che si e­stende fino al livello di quelle che Amartya Sen e Martha Nussbaum chiamano capabi-­lities: sono ormai profonda­mente diversi gli insiemi del­le scelte di vita accessibili ad esempio a una giovane precaria del Sud o a un pensionato al minimo rispet­to a quelli di un lavoratore stabile di una regione del Nord o, a maggior ragione, di uno dei succitati mana­ger. Non si tratta qui di fare l’apologia di forme di e­gualitarismo distratte nei confronti del talento indi­viduale, ma di richiamare – con una prospettiva ana­loga a quella indicata da un altro premio Nobel, Joseph Stiglitz – i drammatici costi che un simile eccesso di diseguaglianza impone alle vite delle persone. Non è certo casuale che a esso corrisponda anche un trend demografico discendente, che pone pesanti interro­gativi al sistema-Paese [...]. Quando sembra che le fondamenta stesse del­la civitas siano erose, appare difficile persino custodire se stessi: difficile mantenere quell’affidabilità su cui altri possono contare; dif­ficile mantenersi responsabili in quelle scelte nelle quali ogni giorno diamo forma alla nostra identità, ma anche alle comunità in cui viviamo, alla città che abitiamo, alla complessa rete delle relazionalità. In tempi così critici, in effetti, persino le scelte quotidia­ne possono diventare logoranti, specie quelle più de­licate ci mettono in gioco profondamente, ci fanno pressione, ci costringono a bruciare energie che tal­volta è faticoso ricostituire, mettendo a rischio il no­stro stesso coraggio di essere. Eppure proprio esse so­no il luogo in cui possiamo superare – sia pur local­mente, in tempi e spazi limitati – quell’ambivalenza che abbiamo segnalato. È in esse che possiamo rea­lizzare quella ripresa a un livello più alto che abbia­mo visto così rilevante per le relazioni interpersona­li,  così come per la vita della comunità e quella della civitas. È in esse – e negli stili di vita che esse genera­no – che diamo corpo a un’identità capace di soste­nere buone pratiche, operando efficacemente per la custodia e per il rinnovamento, mantenendosi sal­da anche nel mutamento e attraverso di esso.Certo, in un tempo di crisi che ci tocca così profondamente, è difficile pensare ad essa con ingenuità, come se potessimo facilmente ritro­vare quell’«uomo che se ne va sicuro», certo del­le proprie azioni e tranquillamente padrone di sé, da cui già si congedava Montale. Oggi può star sal­do solo chi conosce la propria fragilità, chi sa quan­to l’ambivalenza tocchi persino il nostro stesso esse­re personale; chi comprende che un’identità affidabile può sorgere e mantenersi solo se sappiamo attingere a riserve di senso davvero robuste. L’identità, in effet­ti, non è mai solo l’espressione di scelte individuali: essa si fa e si rinsalda anche nel contatto con tante realtà che ci vengono offerte, se solo possiamo e vo­gliamo volgerci a esse. Grazie a esse, anche nei mo­menti più delicati possiamo alimentare la nostra re­silienza, quella capacità di ritrovare equilibrio – ma­gari anche in forme nuove, diverse, più solide e crea­tive – di fronte alle perturbazioni.Diverse possono essere le fonti cui indirizzarsi: per al­cuni è la bellezza di un luogo naturale o quella di una città amata, così come la solidarietà degli amici o di coloro con cui si condividono sogni o ideali. Per altri può essere il riferi­mento alla propria storia per­sonale o familiare o a un pro­getto condiviso, con gruppi o comunità. Per altri ancora può essere semplicemente quella realtà indefinibile che si mani­festa leggera in una poesia o in una canzone, o in un’immagine particolarmente cara, o magari nelle profondità di un silenzio ritagliato al cuore di una gior­nata frenetica. Spesso è un libro (o magari più d’uno), cui si ritorna perché nell’intensità delle sue parole o nella forza di una narrazione esso ci comunica un’e­nergia vivificante. Per molti, poi, tali realtà sono lega­te a una qualche forma di fede religiosa – per chi scri­ve, quella nel Dio di Gesù Cristo – sperimentata come fonte di forza nel­la difficoltà, sor­gente di speranza attraverso i gior­ni. Tante, insomma, le forme in cui possiamo mante­nere vivo il con­tatto con quei ri­ferimenti che ci aiutano a pren­derci cura della nostra esistenza, quasi rigeneran­dola. Abbiamo bisogno di ritro­vare – proprio an­che per mante­nere salda e crea­tiva la nostra i­dentità al cuore della  civitas – una spiritualità (an­che se non per tutti tale termine rimanderà necessariamente a un vissuto religioso); abbiamo bisogno di tempi nei qua­li riprendere respiro, nei quali attingere a un senso fa­cendolo diventare per noi vita quotidiana, carne e san­gue; nei quali sempre e di nuovo la nostra storia per­sonale si scopra inserita in narrazioni più ampie.  Così possiamo mantenere un’identità dinamica e re­lazionale, capace di vivere creativamente la realtà del presente, così come la trasformazione che la investe, pur senza deporre la capacità di discernimento criti­co nei confronti dell’una e dell’altra. Così può vivere quella speranza in un mondo diverso che nasce sì dal­l’indignazione per le contraddizioni del presente, ma trova soprattutto sostanza nella memoria, tenace­mente coltivata, di una vita che sa essere – nonostan­te tutto – portatrice di bellezza e meritevole di cura.Così possiamo mantenere quello sguardo che sa an­dare al di là delle singole scelte di cui è pure intessu­to il nostro quotidiano, per ritrovare ampiezza di re­spiro, senso storico, lucidità nell’analisi e capacità pro­spettica nella proposta. Così, insomma, può delinearsi una visione, certo sobria, certo conscia del proprio li­mite, eppure anche ardita nel disegnare futuro per un tempo che talvolta sembra senza vie d’uscita.
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