venerdì 11 luglio 2014
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​Un atto di estremo coraggio sarebbe stato quello di fare una mostra di Renoir senza le classiche donne poco o niente vestite, mentre fanno il bagno, si asciugano, o se ne stanno immerse come madre natura le ha fatte nel paesaggio. Non perché nei nudi di Renoir vi sia qualcosa di pruriginoso, di indecente o una inclinazione pornografica; proprio il contrario, era uno che amava le donne (qui, la citazione va all’Homme qui aimait les femmes, il film che François Truffaut girò nel 1977, da cui prende il titolo il saggio di Daniel Marchesseau che apre il catalogo della mostra del pittore francese allestita alla Fondazione Gianadda). Amare le donne non è reato, tanto più che Renoir le amava come chi insegue un’immagine che si sottrae al suo dominio: per questo la ripeteva, la rigirava, la trasformava in un idolo di bellezza, se non in un feticcio.
 
Giudicare un artista dalle sue debolezze umane è sempre un errore. Bisogna stare ai fatti. Da una debolezza può scaturire un atteggiamento che produce qualcosa di buono. Però, nel caso di Renoir, l’estremo coraggio poteva essere quello di non mostrare nessuna delle sue celebri donne e donnone, con le cosce sempre un po’ abbondanti e i ventri generosi, non per censurarne il tema o la presunta dipendenza da innamorato del corpo femminile, ma per mettere in risalto senza se e senza ma l’assoluta, strepitosa capacità pittorica di questo demiurgo del colore, l’unico impressionista che abbia fatto chiaramente vedere come la pittura “atmosferica” sia l’ultimo stadio, il grado zero del barocco, quel limite dove la materia anziché risolversi in un’opera di alta pasticceria come nel Bernini (ricordiamoci che Arturo Martini confessò candidamente due cose: la sua nascita di scultore dall’imprinting ricevuto dalla visione, alla tenera età di due anni, di un corpo femminile nudo, e dal ricordo, sempre infantile, degli zufoli alle fiere e dei dolci che cucinava il padre pasticciere), si dissolve fino a lasciare nell’aria un effluvio di luce, un sentore di bellezza perduta.
 
E a dircelo sono certi paesaggi esposti a Martigny dove si capisce che dipingere per Renoir era una gioia dei sensi, ma governata da un intuito infallibile nell’accostare i colori in modo tale che dessero vita a un concerto luminoso, a una vorticosa scala del paradiso (per capire, si vedano Plage de Guernesey del 1883 o Scène de personnages del 1885, ovvero Paysage avec figures sul l’herbe, del 1892, un omaggio a certe prospettive incoerenti di Van Gogh ma con quella tenuta dello stile che rende inconfondibile il miglior Renoir).
Che fosse un virtuoso del colore, degli accostamenti sinuosi che denotano una certa audacia consapevolmente tenuta a freno dalla regia d’insieme che rende il quadro una vibrazione di toni, di luci, di cromatismi elegantissimi (qui si avverte una leggerezza quasi settecentesca, ma anche un romanticismo ormai démodè), si capiva fin dai quadretti con Arlecchino, Pierrot e Colombina del 1861. Che poi avesse interiorizzato i grandi ritrattisti francesi dell’ultimo secolo, da David a Ingres, senza lasciarsi irretire, lo si vede anche dal ritratto di William Sisley di tre anni dopo. Se si tiene conto che nel mezzo Manet aveva dato due suoi capolavori, il Déjeuner sur l’herbe e l’Olimpya, si sente nel ritratto di Sisley il tentativo di Renoir di ripensare questo genere senza seguire Manet sull’à plat delle giustapposizioni cromatiche, ancorandosi piuttosto alla tradizione di un realismo sintetico ma non astratto. Ma solo due anni dopo mette in discussione tutto col ritratto di Mme Joseph Le Coeur (1866), dove la materia pittorica si apre, si sfalda, di riplasma sul soggetto coniugando verità ottica e informalità pittorica.È il momento della sprezzatura che anticipa il passaggio esplicito all’impressionismo e al suo «panteismo» cromatico. Stile che, uscendo dal ritratto, trova una misteriosissima incarnazione in quel florido e selvatico fiorire del giardino dove passeggia la donna con l’ombrello (1873-’75), figura che si nota soltanto dopo qualche istante quando, per così dire, il diaframma ottico si chiude e mette in evidenza una profondità costruita tutta sulla prospettiva dinamica delle macchie di colore. È un vero inno alla natura senza preordinate costruzioni formali, ciò che Monet porterà al parossismo costruendosi un paesaggio su misura a Giverny, dove dipingerà ossessivamente fino alla morte le ninfee, ovvero – scrisse Cesare Brandi – «il quadro che fa capire cos’è la pittura o, se non si capisce, la fa ignorare per sempre». Anche Renoir nel 1907 acquista quello che poteva essere il suo buen retiro, la tenuta agricola a Les Collettes, di cui in catalogo Cécile Bertran racconta la storia e le evoluzioni. Renoir era inquieto, cercava il “luogo della creazione”, così negli anni vengono fatti nuovi lavori per aprire nel podere vari punti-atelier: anche una specie di struttura in legno a nord della casa, tutta vetrata, appoggiata su uno zoccolo di pietre e coperta di tegole rotonde: era come essere en plein air pur lavorando in uno studio di pittore. La sintesi ideale. E questo dice molte cose sull’impressionismo di Renoir, che nasce dal bisogno di essere dentro, compreso nello spazio che dipinge, di sentirsi parte della natura che cresce senza che lui le abbia imposto una regola, ciò che invece è indispensabile a Monet, che dipinge con l’occhio («Monet è solo un occhio, ma che occhio!» diceva Picasso), perché deve tenere in pugno quel mondo che ha contribuito a generare con la sua idea di giardino come natura nuova. Non è contemplazione, ma ricreazione. L’occhio di Monet è ancora rinascimentale, quello di Renoir sembra ritrovare lo sguardo rovesciato dei bizantini che ci risucchia nello spazio rappresentato; nel suo oltre.
 
 
Ma questo cercare di stare dentro, è un desideratum tipicamente maschile, che dà anche la stura alla dipendenza di Renoir dal corpo femminile (in tutte le sue situazioni, sono belli, infatti, anche i ritratti “vestiti” della Fruttaioladel 1895, della Giovane donna in bianco del 1901 e quello ormai tardo della Donna in blu del 1913), perché la donna è l’essere che contiene, è custode della gestazione, fecondità che – fin dalle Veneri preistoriche– è simboleggiata dalla lievitazione dei glutei, delle cosce e dei seni.
 
Una generosità del corpo femminile che Renoir canta con sguardo casto pur senza negarsi certe voluttuosità che fanno pensare più che ai licenziosi pittori settecenteschi, alle carni floride di Rubens. A Renoir non verrebbe mai, in effetti, di dipingere le carni femminili nel modo con cui le vedeva – secondo Paul Valèry – Rembrandt, per il quale «la carne è fango che la luce trasforma in oro». Rembrandt, continua Valèry, «sopporta e accetta quanto vede: le donne sono quello che sono. Non ne trova che di pingui o di scarnite. Anche le poche belle che ha dipinto, lo sono più per una emanazione di vita che per la forma». Possiamo mettere in conto una misoginia dettata dalla cultura protestante, la stessa che, per iconofobia, aveva spogliato le chiese di gran parte delle immagini sacre. Certo, Renoir non potrebbe pensare la donna se non come bellezza a priori. È la «terra» su cui si radica il suo ideale di bellezza pittorica (che non ha niente a che fare con la seduzione dell’immagine rappresentata, perché è l’immanenza pura, l’energia del colore).
 
Avevo esordito parlando di coraggio. La mostra più nuova che si poteva fare su Renoir era una mostra di ritratti. È forse uno dei massimi ritrattisti d’ogni tempo, in mostra se ne trovano alcuni esempi, e basterebbe quello di Alice ed Elisabeth Cahen d’Anvers, per mettere Renoir su uno dei podi più alti. È un dipinto – conservato al museo di San Paolo del Brasile – che sta accanto ai ritratti di infanti di Velázquez senza cedere di un millimetro. Un capolavoro assoluto.
 
 
Martigny, Fondation Gianadda
Pierre-Auguste Renoir
Fino al 23 novembre
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