domenica 31 agosto 2014
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​Le note della Quarta sinfonia di Brahms riempiono il Palasport. E, anche se alzando lo sguardo si scorge solo una cupola d’acciaio, è come se davanti agli occhi tornassero i mosaici di San Vitale o di Sant’Apollinare Nuovo visti qualche ora prima. Perché la musica dell’orchestra giovanile “Cherubini” sembra quasi condurre fra le pieghe della Bibbia cesellata su pareti e absidi dell’«ultima fortezza dei Cesari», come il poeta George Byron chiamava Ravenna. Quando si esce, però, è un altro il volto della città che s’incontra lungo gli otto chilometri del Canale Candiano che la collegano al mare: somiglia ancora a quello del film  Deserto rosso di Michelangelo Antonioni e del mito dell’industrializzazione pesante. Le torri di raffreddamento Hammon – ultima testimonianza della raffineria Sarom – spuntano poco più avanti. Bagliori di luce indicano il polo chimico che fu lo stabilimento Anic. Il Moro di Venezia, la barca voluta da Raul Gardini all’apice del suo potere, è esposta come un trofeo nella Darsena e riporta all’epopea dell’impero Ferruzzi. Ecco la Ravenna che sogna di diventare Capitale europea della cultura nel 2019 dopo essere stata capitale già tre volte: durante l’Impero romano d’Occidente, il Regno gotico e l’Esarcato bizantino. Un po’ Costantinopoli, un po’ Liverpool, la città di quasi 160mila abitanti sottratta alla laguna tenta adesso di conciliare l’inconciliabile: la bellezza racchiusa negli ori bizantini con l’impronta del porto e della fabbrica; l’immagine felliniana che il suo tratto di Riviera romagnola le conferisce con una propria vivacità culturale; i caratteri littori lasciati dal romagnolo Mussolini col monocolore “rosso” degli amministratori; la gelosia per ciò che si ha con l’apertura al mondo; l’amore per Dante Alighieri con la piadina. «Siamo lo specchio dell’Italia. In una città di provincia uniamo arte, mare, lingua, forte identità e ampi orizzonti», spiega Alberto Cassani, coordinatore del progetto di candidatura con un passato da assessore. In sette compongono il suo staff. «Non abbiamo pescato dall’esterno come le città avversarie. E puntiamo sui giovani». Lo slogan che unisce il percorso è “Mosaici di culture”. «Non volevamo ricorrere a questa metafora – afferma Cassani –. La avvertiamo banale: siamo nati all’ombra dei mosaici». Invece al di là dei confini di Ravenna l’immagine è piaciuta. «Perché il mosaico rimanda alla forza delle differenze. Ed è ciò che deve scoprire l’Europa». La Chiesa locale è la custode di gran parte dei gioielli d’arte. «Con i soli biglietti d’ingresso – sottolinea l’arcivescovo di Ravenna-Cervia, Lorenzo Ghizzoni – riusciamo a sostenere questa impresa. Tutto è sulle nostre spalle attraverso l’Opera di Religione ». Più di cinquecentomila turisti arrivano ogni anno in città. E un milione e trecentomila si fermano nell’intera provincia. «Dobbiamo entrare. Abbiamo i tempi da rispettare », protesta nel mausoleo di Galla Placidia la guida di un gruppo di croceristi americani sbarcati a Marina di Ravenna. «La bellezza è, sì, un volano ma non si riesce ad andare a fondo – sostiene l’arcivescovo –. Sarei curioso di sapere chi comprende che i mosaici di San Vitale riprendono la prima Preghiera eucaristica». La curia è al primo piano dell’episcopio trasformato in museo. Dietro l’angolo il Battistero Neoniano. «Qui si avvertono ancora le tensioni fra Stato e Chiesa – ammette Ghizzoni –. E ci rendiamo conto che la città ha bisogno di un rilancio». Parole che hanno come un’eco in municipio. Piazza del Popolo ha striscioni e totem della candidatura. I ragazzi delle scuole l’hanno invasa per scrivere “2019” con le magliette blu. «Non corriamo il rischio di essere un museo a cielo aperto – ribatte il sindaco Fabrizio Matteucci, oggi nel Pd ma con una lunga militanza nel Pci –. Basta guardarsi attorno: siamo una città viva, non morta». Certo ci voleva il tracollo della Ferruzzi-Montedison e poi il sigillo dell’Unesco su otto monumenti per prendere coscienza del valore dei tesori paleocristiani. «Oggi – prosegue il sindaco – il nostro patrimonio è il punto di partenza di “Ravenna 2019” che nasce con l’intento di innovare e immaginare il futuro». Magari mettendo in cantiere anche «un mosaico solare che sposa arte ed ecologia, realizzato con i pannelli fotovoltaici», anticipa il responsabile artistico, Lorenzo Donati,  sotto un ombrellone dello stabilimento balneare “Hana-Bi”.Il capoluogo è stato uno dei primi a essersi messo in moto per conquistare il titolo europeo. Era il 2007. E qualcuno maligna: il Comune ha già speso 450mila euro. «Ma la gente ci ha seguito», ribatte Cassani. Un sondaggio dice che otto abitanti su dieci reputano utile l’impresa. E, quando si chiede loro quale sia il punto di forza, rispondono: la partecipazione dei cittadini. «Per elaborare il progetto – riferisce la project manager Nadia Carboni  – sono state coinvolte duemila persone in oltre cento incontri. Un impegno che non ha uguali». L’hanno chiamato Open call. Ed è singolare che si ricorra all’inglese nella città dove Dante ha scrit- il Paradiso e in cui si trova la sua tomba.Da tre anni vanno avanti le “Prove tecniche di candidatura”. La formula racchiude le iniziative partorite dal territorio che hanno trovato un collante in “Ravenna 2019”. Ed è la testimonianza di «un tessuto di associazionismo culturale davvero eccezionale», fa sapere il sindaco. Dentro c’è di tutto: dagli spettacoli nell’arena costruita con le balle di paglia alle proiezioni notturne sulle facciate dei monumenti Unesco. «Crescere qui significa avere gli occhi aperti al bello. E, quando questo si unisce all’arte dello stare insieme, produce un fermento che fa della cultura non un soprammobile ma qualcosa di tangibile», rivela  Marco Martinelli,  fondatore del Teatro delle albe. La sua compagnia gestisce il teatro Rasi ricavato nell’ex chiesa di Santa Chiara. «Guardi, il palcoscenico ha l’abside – indica –. E ci metteremo in scena l’intera Divina Commedia. Sarà una produzione che durerà dal 2019 al 2021, anno del settimo centenario della morte del sommo poeta». Simbolo dell’intraprendenza culturale cittadina è il “Ravenna Festival”, la rassegna di musica fondata da Maria Cristina Mazzavilani, moglie del direttore Riccardo Muti. Romagnola doc, si racconta accanto al palco del Palasport. «Ci descrivono come i più ospitali. In realtà abbiamo una mentalità un po’ chiusa. Per questo desidererei una città che sia di nuovo ponte fra Oriente e Occidente. Non è un caso che in venticinque edizioni il Festival abbia costruito molte “vie dell’amicizia” con l’estero».Però, almeno per chi crede, la città dallo «strano silenzio» – secondo Oscar Wilde – continua a essere un laboratorio dell’incontro. Porta il nome di Ravenna il documento ecumenico del 2007 sul dialogo tra Chiesa cattolica e ortodossa. Il Patriarcato di Mosca ha “comprato” un tempio che ha abbellito con una cupola d’oro. E in periferia è stata aperta la seconda moschea più grande d’Italia. «Restiamo cosmopoliti –, sostiene Antonio Patuelli, presidente dell’Associazione bancaria italiana e della locale Cassa di risparmio –. Ho 63 anni. E mi piace considerare Ravenna una Venezia interrata. O meglio, il mare ce l’abbiamo ed è un richiamo turistico. Il porto è fra i principali della Penisola. Le industrie resistono. L’agricoltura funziona. Se la città sta affrontando la crisi meglio di altre, è per la sua poliedricità».Però ha un sogno: riportare le acque dell’Adriatico alle porte del centro tornando a far vivere le sponde del Candiano. È il programma di recupero della Darsena, l’agglomerato dove le case popolari sono strette fra i capannoni che un tempo servivano le navi e oggi sono abbandonati. «Grazie a “Ravenna 2019” diventerà un quartiere smart», precisa il sindaco. Più di 130 ettari da risistemare, di cui l’85% in mano ai privati. «L’obiettivo è arrivare a una progettazione partecipata come accade nel Nord Europa», chiarisce Cassani. Per ora c’è qualche assaggio di quella che sarà la Darsena del futuro. La banchina dietro la stazione è stata trasformata in una passeggiata. L’ex deposito Almagià è un teatro dove si respira ancora l’odore di zolfo che lì era stipato. E via dei magazzini anteriori ospita “Dock 61”, uno spazio per le imprese creative. A due passi dal municipio un manifesto ringrazia il popolo di “Ravenna 2019”. «Lo striscione? La Capitale della cultura? Non so nulla...», risponde stupita una vigilessa. Meglio fare tappa dal barbiere Salvatore Mallamo. Sulla vetrina del negozio ha il logo della candidatura. «A scuola ero un somaro. Così ho iniziato a lavorare ». Però racconta di Teodorico, Dante o Galla Placidia come fossero vicini di casa. Potere di una città che ancora coltiva l’ambizione di tornare grande.
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