lunedì 5 ottobre 2009
È innanzitutto necessario lottare contro la smemoratezza nei confronti delle proprie radici, dei valori costitutivi, dell’identità genuina dell’Europa. Lo scrittore francese Georges Bernanos in una sua analisi dello svuotarsi dell’anima della nostra società, sviluppata nel saggio "La France contre les Robots", dichiarava: «Una civiltà non crolla come un edificio; si direbbe molto più esattamente che si svuota a poco a poco della sua sostanza finché non ne resta più che la scorza».
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C’è un suggestivo gioco di parole che è stato coniato dai giovani dei vari paesi europei in occasione dei loro incontri di matrice religiosa: essi parlano di Eur-hope, un’Europa, dunque, da costruire nella speranza e non solo nel realismo dell’economia e della politica. Una comunità che sappia ancora tendere verso ideali e orizzonti più alti, stimolati dalla cultura, da una "politica" che riveli il senso più nobile del termine e da una spiritualità che non è solo confessione religiosa ma anche ricerca del senso ultimo dell’esistenza e dei valori morali e umani che trascendono interessi e contingenze. Per raggiungere questa meta è paradossalmente necessario risalire lungo il fiume del passato, ritrovando le proprie sorgenti umane e spirituali. È ciò che il grande Goethe esprimeva in modo folgorante con la battuta: «La lingua materna dell’Europa è il cristianesimo». Anche Kant era convinto che «il Vangelo è la fonte da cui è scaturita la nostra civiltà». Certo, a prima vista l’Europa si rivela come un mosaico, un vero e proprio arcipelago di culture: c’è l’area latina ma anche quella germanico-baltica, c’è l’area slava e c’è quella celtica. L’Europa non ebbe quasi mai un’unità civica o politica o storica. Tuttavia ebbe sostanzialmente per secoli e secoli una sua unità civile, culturale e spirituale. L’anima di questa unità interiore, spesso appannata o coperta da sedimenti ma mai spenta, ebbe anch’essa molte iridescenze: pensiamo solo al rilievo della filosofia greca o all’incidenza del diritto romano e, se giungiamo alle epoche più recenti, pensiamo all’influsso dell’Illuminismo liberale o del movimento operaio, cioè della ragione e della lotta per la giustizia sociale. Tuttavia è indubbio che il nodo d’oro che tenne insieme questa molteplicità o il filtro che ne vagliò gli effetti o anche la stella polare di riferimento o di contrasto fu il cristianesimo. Aveva ragione Paolo VI quando affermava simbolicamente che l’Europa «nasce dalla croce, dal libro e dall’aratro». Non per nulla a rinverdire il termine Europa, caduto in disuso, fu proprio un Papa, Nicolò V, nel 1453, purtroppo in un momento tragico, quello che – con la conquista di Costantinopoli – segnava la frattura tra l’Occidente e l’Oriente europeo. Il cristianesimo, con la sua celebrazione della persona e della dignità umana, con la contemplazione (ora) e l’impegno sociale (labora) del monachesimo benedettino, con la riflessione del Medio Evo e con la cultura gloriosa dell’Umanesimo e del Rinascimento, costituiva il "grande codice" ideale dell’Europa. In particolare lo era attraverso la Bibbia, coinvolgendo così anche le matrici ebraiche. Non per nulla persino Nietzsche nei materiali preparatori alla sua opera Aurora doveva riconoscere che «per noi Abramo è più di ogni altra persona della storia greca o tedesca. Tra ciò che sentiamo alla lettura dei Salmi e ciò che proviamo alla lettura di Pindaro e Petrarca c’è la stessa differenza tra la patria e la terra straniera». Il pittore Marc Chagall era convinto che per secoli i pittori hanno intinto il loro pennello in quell’«alfabeto colorato della speranza» che sono le Sacre Scritture, tant’è vero che senza la loro conoscenza è impossibile decifrare l’iconografia dell’arte europea. È naturalmente impossibile delineare ora la planimetria di questa storia culturale che ha nel cristianesimo quasi il suo «grande lessico», per usare un’espressione del poeta francese Paul Claudel. Si tratta, infatti, di un rapporto estremamente complesso, non di rado dialettico e fin conflittuale, che però risulta decisivo per la comprensione della nostra stessa identità. Perciò, anche per la storia presente dell’Europa è necessario tener presente l’illuminante contrappunto che Cristo propone in quella sua celebre asserzione: «Date a Cesare quel che è di Cesare e date e Dio quel che è di Dio» (vedi Matteo 22, 15-22). La sfera politica, economica, "laica" ha una sua dignità e una sua autonomia emblematicamente rappresentata da un parlamento comune e dalla moneta, l’euro. Ma c’è un’altra sfera che è distinta ma non antitetica ed è quella della persona umana, della cultura, della spiritualità ove si configura l’"immagine" non di Cesare ma di Dio: infatti, «Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò» (Genesi 1, 27). L’Europa di Cesare e l’Europa di Dio, cioè immanenza e trascendenza, politica e religione, economia e cultura devono intrecciarsi tra loro, senza reciprocamente prevaricare. In questa luce il cristianesimo è, come affermava Francesco De Sanctis, spirito "laico" dell’Ottocento, la radice del nostro «sentimento religioso che è lo stesso sentimento morale nel suo senso più elevato» (così nell’opera La giovinezza). In questa luce possiamo auspicare che, proprio sulla scia dell’anima cristiana che pulsa sotto la superficie della nostra civiltà, la mostra sui Santi patroni d’Europa si trasformi in un appello a impedire la dissoluzione della nostra specificità, della nostra autenticità, della nostra identità gloriosa. È, questo, un discorso passibile di mille sfaccettature: noi ne scegliamo – considerati i limiti di questa riflessione soltanto "provocatoria" e quasi "impressionistica" – solo tre, componendole in un ideale trittico nel quale tutti riescano a riconoscersi e a impegnarsi, dato che «non possiamo non dirci cristiani» per le ragioni che Croce ebbe già a formulare nel suo famoso intervento del 1942 su La Critica. È innanzitutto necessario lottare contro la smemoratezza nei confronti delle proprie radici, dei valori costitutivi, dell’identità genuina dell’Europa. Lo scrittore francese Georges Bernanos in una sua analisi dello svuotarsi dell’anima della nostra società, sviluppata nel saggio La France contre les Robots, dichiarava: «Una civiltà non crolla come un edificio; si direbbe molto più esattamente che si svuota a poco a poco della sua sostanza finché non ne resta più che la scorza». C’è il rischio che l’Europa si riduca proprio a scorza, a tronco arido, avendo disseccato la linfa delle sue radici profonde cristiane, votata solo alla "virtualità" (i «Robots» che si affacciavano sul panorama europeo degli anni ’40 in cui viveva Bernanos), appiattita su modelli estrinseci come quello tecnologico contemporaneo. Le cattedrali e i gloriosi monumenti si trasformano allora, come diceva il poeta tedesco Wilhelm Willms, in «vuoti gusci di chiocciola», percorsi solo da distratti sciami di turisti, privi di cuore, di vita, di canti, di voci, di fede. I nobili segni della nostra cultura si riducono, così, ad essere conchiglie senza l’eco del mare del passato. Alla povertà e al vuoto ci si abitua al punto tale da non avvertirli più come tali, secondo quanto ammoniva il filosofo tedesco Martin Heidegger nella sua opera Sentieri interrotti: «Il tempo della notte del mondo è il tempo della povertà, perché il mondo diventa sempre più povero. È già diventato tanto povero da non poter riconoscere la mancanza di Dio come mancanza». Contro la smemoratezza è necessario riscoprire il ricordo nel suo significato etimologico di "riportare al cuore", cioè alla coscienza della nostra umanità, i valori sorgivi della nostra civiltà. Una seconda lotta da intraprendere – e questa mostra ne è un esempio illuminante – è quella, conseguente alla precedente e ad essa connessa, contro la superficialità, la banalità, la vacuità, la volgarità, la bruttezza. È un ritorno all’etica e alla bellezza che erano le stelle fisse del cielo della civiltà europea nei secoli, proprio sullo stimolo del messaggio cristiano, un annunzio di giustizia e di bellezza, di verità e di luce, di amore e di armonia che aveva nei Santi quasi un simbolo vivente. Aveva ragione Benedetto Croce quando in un opuscolo del 1935, Orientamenti, ammoniva: «Non vi date pensiero di dove vada il mondo, ma di dove bisogna che andiate voi per non calpestare cinicamente la vostra coscienza, per non vergognarvi del vostro passato tradito». È necessario un sussulto di moralità, un supplemento di anima, una purificazione alle fonti della bellezza, realtà che hanno reso l’Europa un vessillo tra i popoli del mondo.È spesso citato l’apologo che il filosofo danese cristiano Sören Kierkegaard ha lasciato nei suoi diari: «La nave è in mano al cuoco di bordo e ciò che trasmette il megafono del comandante non è la rotta ma ciò che mangeremo domani». Sempre più quella sorta di Moloch della comunicazione che è la televisione o internet comunica solo – a folle di persone con le mani alzate in segno di resa o di adorazione – ciò che dobbiamo mangiare, indossare, le mode e i modi della vita. Manca una voce che indichi la rotta, il senso della vita, che ci interpelli sul bene e sul male, sul giusto e sull’ingiusto, sul vero e sul falso, sull’esistere e sul morire. Infine c’è un ultimo impegno che vogliamo evocare per ritornare ad essere autenticamente europei ed è quello della lotta contro gli estremi, gli eccessi, la spirale delle pure antitesi. La cultura greca ci ricordava che il sapiente è un uomo meth’orios, "da frontiera", capace di procedere con intelligenza e cautela sulla linea di demarcazione di territori differenti o sul vertice tagliente di un monte, lungo il quale si distendono due versanti (così l’alessandrino ebreo Filone nel De somniis). Da un lato, infatti, si può scivolare lungo il versante di un sincretismo che diventa relativismo incolore e che spegne e dissolve la nostra identità specifica. Dostoevskij con veemenza gridava: «L’Europa ha rinnegato Cristo. È per questo, è solo per questo che sta morendo».D’altro lato, c’è il rischio di precipitare lungo il versante del fondamentalismo che diventa esclusivismo acceso e che cancella ogni rispetto e ignora ogni valore altrui, in una sorta di foga iconoclastica, feroce e impaurita al tempo stesso, nei confronti di tutto ciò che è diverso. È, invece, indispensabile ritrovare la grande tradizione del dialogo, del confronto tra le culture e le religioni, nello spirito di quel cristianesimo genuino – spesso tradito – che vedeva i semina Verbi, cioè i "semi del Verbo" divino nella molteplicità della ricerca umana. Consapevoli della propria identità, non si diventa integralisti, ma capaci di confronto, di «esaminare ogni cosa, tenendo ciò che è buono», come suggeriva Paolo ai cristiani greci di Tessalonica (I, 5, 21). È, dunque, risalendo lungo il corso del fiume della storia europea sino alle sue sorgenti che riusciamo a riproporre un’Europa che non sia solo geografica o economica. Che questo pellegrinaggio ideale, necessario per credenti e per agnostici, sia decisivo lo ricordava in modo suggestivo uno dei massimi poeti del Novecento, Thomas Stearns Eliot, un americano che scelse l’Europa come patria: «Un cittadino europeo può non credere che il cristianesimo sia vero e tuttavia quel che dice e fa scaturisce dalla cultura cristiana di cui è erede. Senza il cristianesimo non ci sarebbe stato neppure un Voltaire o un Nietzsche. Se il cristianesimo se ne va, se ne va tutta la nostra cultura, se ne va il nostro stesso volto».
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