giovedì 12 marzo 2009
«Recito la parte di una maschera di strada che cerca a Parigi il figlio fuggito da casa. È il simbolo di chi sogna ancora e cerca di migliorare il mondo anche con l’arte»
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Non ci si rassegna mai all’ultimo spettacolo. Per l’attore è sempre quello che verrà. Maurizio Scapar­ro, ne L’ultimo pulcinella (nelle sale dal 13 marzo) racconta l’ostinazione dell’artista a calcare la scena anche a costo della fame. Lo fa con un film che lo riporta a un testo inedito di Roberto Rossellini, che già vent’anni fa tradusse a teatro con lo stesso protagonista di oggi, Massimo Ranieri. Pul­cinella scappa via da Napoli a Parigi, e tro­va la sua casa in un piccolo teatro abban­donato di una banlieu, dove la condizione ai margini degli immigrati diventa riflesso della miseria e nobiltà a cui l’artista si sen­te condannato. La fantasia al potere parla napoletano e indossa sotto la maschera di Pulcinella, il volto di Massimo Ranieri, le rughe incise dall’esperienza che a Napoli è insieme vita e arte, melodia e spettacolo. La sua voce come un sipario invisibile apre e chiude la scena. Lui è Michelangelo, una maschera di strada che arriva a Parigi sul­le tracce del figlio fuggito da casa. L’impresario napoletano all’inizio del film dice al suo personaggio: «Pulcinella è vec­chio. La gente di questi tempi vuole ride­re ». Chi è, secondo lei, Pulcinella, oggi? Pulcinella è il sogno. Quello che ancora de- ve nascere e deve arrivare. È il futuro in ma­no ai giovani. È l’entusiasmo di portare a­vanti questo pensiero rivoluzionario, l’u­topia dell’artista. È chi si ostina ad amare lo spettacolo, il teatro, la musica. L’impre­sario rappresenta invece tutti coloro che non vanno al di là del proprio naso e pen­sano solo alla moneta. Nello scontro generazionale tra il padre­attore e il figlio sembra però che rispetto al passato ci sia il rischio di perdere qual­cosa… È il conflitto di tutti i giorni, tra padre e fi­glio. Michelangelo tenta di trasmettere al fi­glio un pensiero così nobile come il teatro, incarnato nella maschera di Pulcinella, ma trova sempre una resistenza, un rigetto. So­lo dopo aver visto con quanta abnegazio­ne il padre si dedica al suo lavoro, capisce cosa significa il teatro. E forse in quel mo­mento, anche in lui nasce un futuro Pulci­nella. Napoli e Parigi, bellissime città con com­plicatissime periferie. È possibile come nel film costruire attraverso il teatro un cen­tro d’identità multiculturale in una ban­lieue? La periferia è un sud del sud. E come tutti i sud è destinata a soffrire e a soccombere. L’artista non può trasformarla se non al­lietandola. Basta prendere due casse di co­stumi e fare teatro per e con gli abitanti del­le periferie. Coinvolgerli, appassionarli, fra­ternizzare: condividere quei momenti, o­gnuno con la propria cultura. La canzone napoletana diventa il traino di una musica del mondo al centro di uno spettacolo multietnico. È questo esotismo il suo fascino? La musica è il fondamento predominante della maschera, Pulcinella, del mito tea­trale ma anche del popolo napoletano. Io ho la presunzione di pensare che Palum­mella, la canzone che canto nel film, è al­l’altezza di un’opera di Wagner o di Schu­bert. Quelle sono state scritte per un’or­chestra, questa per la semplicità di una chi­tarra. Ma la poesia e la forza che c’è dietro è la stessa. Poi, con gli innesti dei musici­sti africani si moltiplicano le sonorità, i co­lori, i sapori, e viene fuori una musica che va al di là di qualsiasi barriera.
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