venerdì 9 ottobre 2015
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«Nel disco sorrido alla vita, ne canto come di una Malia appunto. Però ci sono stati, un paio di momenti in cui ero a un passo dal lasciare tutto. E due estati fa, quando mi hanno operato d’urgenza, in realtà sono stato preso per i capelli: anche se pochi lo sanno e pure a me l’hanno detto solo dopo un po’. Ma continuo a pensare di essere un privilegiato cui Dio ha regalato un grande giocattolo. Ed è per questo che non smetto mai di lavorare». Dietro le quinte di un gran disco, quel Malia col quale rilegge la Napoli “all’americana” del decennio 1950-1960, e a margine di un incontro con la stampa centrato su tale album e il ritorno in tv a gennaio, Massimo Ranieri riprende per qualche istante il suo vero nome, Giovanni Calone, e parla anche d’altro. Della possibilità un giorno di dover rinunciare al palco; delle nuove leve da talent show; di tutte le sue sfide: dalla scelta di fare teatro dopo i fasti di Canzonissima alla Piccola enciclopedia della canzone napoletana che a cinquant’anni dalla celeberrima Napoletana di Murolo testimonierà e ricodificherà a metà novembre la musica della città partenopea. Partendo proprio da come ha osato rileggerla nel tempo Ranieri, in un cofanetto di sei Cd di cui due inediti. Perché questo Malia, che non ne farà parte (è una sorta di extra dell’Enciclopedia), non è che uno dei tanti dischi di rilettura della canzone di Napoli che l’artista ha licenziato dal 2001 ad oggi. E malgrado stavolta non ci sia né l’affrontare la contemporaneità di Daniele o 99 Posse di Senza ’na ragione, né il gusto di scardinare la tradizione con la modernità dei primi lavori fatti in tema con Mauro Pagani, anche in Malia convivono coraggio dell’interpretazione e rispetto degli originali. Solo che stavolta Ranieri e Pagani hanno puntato sul jazz: un pantheon di autori ingiustamente considerati minori (Bongusto, Di Capri, Calise, Calvi, Kramer oltre che Carosone o Modugno), e a rileggerli con Ranieri i jazzisti Rava, Di Battista, Marcotulli, Fioravanti e Bagnoli. Mettendo Miles Davis e milonga su Doce doce e ’O sarracino, o trasfigurando con eleganza Luna caprese, in un disco che è stato fatto ascoltandosi, trattenendosi, misurando musica e canto. Come non si usa più, come pochi sanno fare, come Ranieri fa ormai da diverso tempo. Senza dimenticare da dove Giovanni Calone partì, cantando per sfamare la famiglia. Davvero per lei la vita è stata solo magia? «No, ci sono stati due passaggi duri. Uno dopo il mio primo Sanremo nel 1968: alla vigilia del secondo avevo deciso che non fosse accaduto nulla sarei tornato a Napoli, dove avevo fatto anche il garzone o il fattorino. L’altro dopo i milioni di dischi venduti, nel 1975. Non credevo di poter dire ancora qualcosa e non volevo una routine. Per questo bussai alle porte di Strehler, Patroni Griffi, De Lullo. Per imparare altro. Ora per molti sono un attore, non un cantante: popolarità che uso per progetti come questo». Scusi, ma chi ascolterà Malia nell’era dei talent? «Non mi sono posto il problema. Anzi, l’artista deve essere l’ultimo a pensarci. È vero che sono anche discografico di me stesso, ma resto un romantico. Faccio quello che ritengo mi serva per crescere. Riccardo III non ha avuto successo di pubblico: ma non è la vendibilità che deve far nascere un’opera». Per questo cantare con misura e in chiave jazz? «Mi sono messo al servizio di un grande periodo di Napoli che ho sfiorato. Anche se debuttai dodicenne all’EM Club di Napoli proprio cantando in inglese davanti a soli americani di stanza in città, quando Napoli respirava atmosfere a stelle e strisce, jazz compreso. E non nascevano canzoni piccole, anzi: anche se venivano snobbate. Meritavano un ricordo». All’inizio della canzone italiana moderna peraltro i jazzisti erano spesso dietro le quinte dei grandi successi: da Intra a Libano, Calvi e Kramer stessi… Quanto ha perso il pop allontanandosi dal jazz? «Ha perso il novanta per cento. E ne vediamo i risultati. Esiste un pop? Non vedo che confusione: non c’è un contesto culturale che produca vero pop». Si sente che i giovani dei talent non fanno gavetta? «Certo che si sente. La gavetta è una palestra. Io feci matrimoni, balere, feste di piazza: e quante fischiate, che fanno maturare. Oggi la tv dà tutto in una notte, ma le folle osannanti non aiutano». Dopo Malia, un’Enciclopedia: erede di Roberto Murolo e del suo lavoro di divulgazione? «Mai, certi personaggi sono intoccabili. Semmai mi ispiro a lui e a come ha insegnato che “non” si deve cantare. Per me tutto ciò è un’altra sfida: tenterò i festival dall’Umbria a Montreux, proporrò anche il jazz in un programma televisivo fatto ancora di poesie, racconti, del mio stesso raccontarmi. La gente, checché se ne dica, vuole sentire chi sei, non solo divertirsi. E io sono fiero di quello che sono: anche di quando feci lo spazzino, per sopravvivere». Non ha paura di quando dovrà dire addio alle scene? «Sono stato vicino a ben altro, nel 2013. Riccardo III mi aveva preso tanto che finivo le prove alle undici di sera e senza mangiare passavo le notti sul copione. Quattro mesi di sigarette, caffè e lavoro e poi mi hanno salvato per un pelo: con sette ore di operazione d’urgenza allo stomaco. Dopo tutto ciò non riesco adesso a immaginare un addio alle scene». Si vede allora come Aznavour, sul palco a novant’anni? «Quello no, non so come faccia. Però spero che il momento dell’addio arrivi il più tardi possibile. E quando sarà, passerò dal palco alle regie». Il suo calendario è fittissimo. Dove trova tempo per ricordarsi anche di Gianni, ovvero di se stesso? «Sono un uomo fortunato, e ringrazio Dio perché mi ha tolto dalla fame consentendomi di continuare a giocare con l’arte che mi ha donato. Gianni, quando Massimo ha un momento libero, punta su film, libri, dischi che Massimo non ha tempo di godersi. E viaggia guardando fuori dalla finestra, con l’immaginazione».
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