lunedì 12 ottobre 2009
Un secolo fa, a Ranica nella Bergamasca, la prima protesta dei sindacati «bianchi»: gli 800 operai di una filatura incrociavano le braccia per quasi due mesi chiedendo salari più equi e il diritto di organizzarsi. E il vescovo stava dalla loro parte.
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Fa ancora storia quel lunghissimo sciopero di un secolo fa all’ingresso della Val Seriana: durò quasi due mesi e coinvolse 800 operai tessili, in maggioranza donne. Anzi – per usare il titolo del volume appena dedicato a quel lontano «autunno caldo» dalla Cisl e dalla diocesi di Bergamo insieme alla Fondazione Zonca, a cura di Mario Fiorendi – «Lo sciopero di Ranica» è «Una storia ancora viva». Di certo per le indicazioni che ancora trasmette in tempi di nuove crisi. Si tratta di un episodio che non solo lasciò il segno all’inizio del sindacalismo «bianco», ma assunse immediatamente il carattere di una svolta: presto indicato nel movimento cattolico italiano all’alba del ’900 come una vicenda esemplare e, a quel momento, praticamente unica. Lo stesso conte Stanislao Medolago Albani definì lo sciopero «il primo… provocato e diretto da una associazione dirigente l’azione sociale cattolica, ufficialmente riconosciuta dalla autorità ecclesiastica». Non solo: quell’agitazione – non condivisa da Medolago Albani e invece sostenuta da un altro protagonista del laicato cattolico come Nicolò Rezzara – vide schierati accanto agli operai e pronti ad aprire una sottoscrizione in loro favore il vescovo di Bergamo Giacomo Maria Radini Tedeschi, seguito dal suo segretario don Angelo Roncalli (il futuro Giovanni XXIII), il cardinale bergamasco Antonio Agliardi, altri sacerdoti come don Achille Ballini, eccetera. Ma ricostruiamo il fatto, benché approfondito in diversi saggi – da Angelo Rovetta, Pierantonio Gios,  Ivo Lizzola, Elio Manzoni, Giuseppe Battelli, Ermenegildo Camozzi, –  su differenti fronti. Nell’autunno 1909 a Ranica, a pochi chilometri da Bergamo, al momento del rinnovo delle condizioni in atto fra i datori di lavoro del Cotonificio Zopfi e i dipendenti rappresentati dalla Lega operaia cattolica (costituitasi due anni prima), ogni richiesta di miglioramento sia economico che disciplinare fu respinta. Al presidente della Lega Carlo Panseri e al suo vice Pietro Scarpellini, operaio della Zopfi, la risposta negativa fu motivata dalle cattive condizioni economiche del momento. Non solo: la direzione attraverso il «gerente» Jost Luchsinger avvertì che escludeva in modo assoluto l’intromissione di qualsiasi estraneo nelle trattative, non riconoscendo come interlocutrice circa i contratti di lavoro la Lega. Ulteriori tensioni scaturirono dal licenziamento di un operaio, poi dalla minaccia di licenziamento per i capi operai che non uscivano dalla Lega: cosa che accadde il 18 settembre al vicepresidente Scarpellini. Nonostante l’invito della presidenza della Lega a serene trattative, la situazione già il 21 settembre precipitò: operaie e operai, esasperati dalle provocazioni della dirigenza, proclamarono lo sciopero; e così macchine e telai rimasero fermi per quasi due mesi. Pur sopportando duri sacrifici, gli scioperanti mantennero un atteggiamento compatto, manifestando senza provocare disordini. Se la scintilla che aveva acceso la reazione solidale dei lavoratori va rintracciata nel licenziamento del vicepresidente della Lega, obiettivo dell’agitazione – con un salario più equo – fu innanzitutto il riconoscimento (negato) del diritto di organizzazione sindacale. E in questo caso si trattava di un’organizzazione cattolica che non condivideva i metodi meno morbidi – e forse più proficui – applicati da quelle socialiste, con le quali c’era anzi un fiero antagonismo. Anche per questa distinzione (non colta in certi spezzoni cinematografici sullo sciopero, pieni di bandiere… rosse!), nella loro prima prova di resistenza sindacalisti e scioperanti di Ranica – seppur malvisti dal padronato e dai liberali – trovarono il sostegno del vescovo di Bergamo, di parte del clero, dei redattori della stampa cattolica (dal settimanale Il Campanone al quotidiano L’Eco di Bergamo diretto da don Clienze Bortolotti). Un aiuto necessario perché «Non c’era altra via», secondo l’espressione usata da Radini Tedeschi in una lettera a Pio X (scelta come titolo del recente convegno bergamasco al quale sono intervenuti – fra gli altri – il vescovo Francesco Beschi, il segretario nazionale Cisl Raffaele Bonanni, lo storico don Goffredo Zanchi). Un aiuto vero, motivato da un «diritto di sciopero giusto e santo» (per usare le parole di don Roncalli) e durato sino alla fine dell’emergenza (il giorno in cui, come scrisse La Sera di Milano, «lo sciopero si chiude con una buona vittoria per gli operai e il principio di un buon avvenire per  le organizzazioni di qualsiasi partito»). Ma anche un sostegno – lo si scoprirà anni dopo con la scoperta di missive riservate – assai criticato. Dai liberali preoccupati dal «bolscevismo bianco». Da ambienti della Curia romana ossessionati dal dilagare di un contagioso «modernismo sociale». Una vicenda arrivata anche al tavolo di papa Sarto. Che il 20 ottobre, avvicinandosi la fine della prova di forza, così scriveva a Radini Tedeschi: «Intorno allo sciopero... qui non hanno fatto la migliore impressione né le adesioni, né le offerte che lo susseguirono. Condannando in massima gli scioperi…, ci siamo limitati a manifestare… la nostra dolorosa sorpresa, anche per le conseguenze che ne derivano. Però se gli apprezzamenti della sua relazione sulla ingiustizia e malafede dell’industriale sono bene fondati, non si può disapprovare quanto ella prudentemente ha creduto di fare nella piena conoscenza del luogo, delle persone, delle circostanze. Nella speranza poi che ella stesso ci fa concepire, che sia vicina la soluzione con un pacifico accordo, colla benedizione apostolica, che le impartisco di cuore, mio confermo suo affezionatissimo Pius P.P. X».
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