mercoledì 6 novembre 2013
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​«L'emigrazione è legge di natura. Il mondo fisico come il mondo umano soggiacciono a questa forza che agita e mescola, senza distruggere, gli elementi della vita. Emigrano i semi sulle ali dei venti, emigrano le piante, gli uccelli e gli animali e, più di tutti, emigra l’uomo». Una riflessione del beato Giovanni Battista Scalabrini. Animata da un tocco di poesia che si scontra, nella realtà, con gli abissi di violenza e soprusi cui sono sottoposti i quattro giovani protagonisti de La gabbia dorata di Diego Quemada-Diez, in sala da giovedì prossimo, Grifone d’Oro al Giffoni Film Festival. Annaspano ogni giorno per uno spicchio minimo di pane e dignità. Tentano la fuga dalla Zona 3 di Città del Guatemala, periferia tra le più pericolose al mondo, attirati dal miraggio incarnato dagli Stati Uniti. Un esodo drammatico, una realtà ricostruita con passione, autenticità e umana comprensione dal regista spagnolo che vive in Messico. Juan, Sara e Samuel insieme all’indio Chauk iniziano il grande viaggio, sperimenteranno il lato più oscuro dell’umanità, senza mai perdere quel briciolo di speranza e di incoscienza che anima tanti loro coetanei. «Ho incontrato seimila di questi ragazzi in otto mesi in Guatemala – racconta – per conoscere qualcosa della loro difficile esistenza. L’idea del film era di dare voce a persone che non hanno voce. Allo stesso Juan hanno ucciso cinque amici: sanno bene, questi ragazzi, che cosa è la morte e quanto poco vale la loro vita. Ma non per questo desistono dal salire sui tetti dei treni e andare al Nord, verso quello che credono il benessere, mentre trovano solo sfruttamento».La gabbia è quella dalla quale tentano la fuga o quella che li aspetta varcato il confine?Scappano da una situazione che li ingabbia certamente, ma il titolo si riferisce a dove questi migranti tentano di arrivare, gli Stati Uniti, che loro chiamano proprio così, "gabbia d’oro", una trappola in cui l’esca è il materialismo. Quando ci sono finiti dentro non possono più uscirne. Tentano, in fondo, di trovare quella luce minima che illumini l’oscurità del loro mondo.Juan e i suoi amici non sembrano essere troppo coscienti dei pericoli.Il trattato di libero commercio tra Canada, Stati Uniti e Messico ha incrementato i movimenti migratori. Ma la corruzione politica, l’assenza di una politica sociale e la mancata instaurazione di un commercio giusto non li ha certo protetti. I bambini dicono: lo faccio perché lo ha fatto mio padre, perché solo così divento un vero uomo, come se fosse un rituale di iniziazione. È un fenomeno spaventoso. Sperimentano anche come gli stessi loro connazionali li sfruttano, li tradiscono, li uccidono.  È la loro perdita dell’innocenza, nel diventare adulti in questo modo. Ma volevo anche riflettere su quale mondo noi adulti stiamo preparando per i nostri giovani. Non è un caso che Juan finisca a lavorare in una macelleria industriale.Ho sempre pensato che Juan dovesse finire, arrivato negli Usa, in quel tipo di industria, perché è quella che utilizza in maggior parte manodopera straniera, spesso illegale. Ma è vero, mi sono reso conto soltanto dopo come la carne degli animali tagliata e inscatolata è anche una metafora dei corpi dei migranti.Talvolta si vede cadere la neve.Ho chiesto a questi ragazzi, prima di iniziare le riprese, quale immagine li avrebbe maggiormente colpiti al loro arrivo negli Stati Uniti. Grattacieli, donne, ponti, strade pulite, mi hanno risposto. Tutti parlavano dei loro sogni materiali, ma uno dei più piccoli mi ha detto che desiderava soltanto vedere la neve, questa cosa bianca che cade dal cielo. L’ho trovato un sogno innocente e universale. Juan è egoista, materialista, tiene ben chiari i suoi obiettivi e fa di tutto per raggiungerli, mentre Chauk viene da un’altra cultura, ha un indole più poetica ed è più cosciente del mistero della vita.
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