martedì 19 luglio 2022
Dal brogliaccio della lettera che il grande artista, col Castiglione, aveva rivolto a Leone X alle origini della tutela dei beni culturali. Un saggio di Ammanniti e Settis ne spiega l’importanza
L’“Autoritratto” di Raffaello

L’“Autoritratto” di Raffaello - archivio

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L’onda lunga delle celebrazioni di Raffaello, iniziate nel 2020 per il cinquecentenario della scomparsa del grande Urbinate, vessata dalla pandemia e – proprio per questo – prorogata oltremodo, ha prodotto un’altra perla. In occasione della grande mostra alle Scuderie del Quirinale (di cui si è già parlato su queste pagine) fu esposta la minuta, di mano del grande letterato Baldassarre Castiglione, amico e sodale di Raffaello, oggi all’Archivio di Stato di Mantova acquistata nel 2016, proprio in previsione delle celebrazioni: AsMn, Archivio Castiglioni, busta 2, n.12. Si tratta della bozza di quella che è passata alla Storia come la Lettera di Raffaello a Leone X cui il Castiglione diede veste letteraria. Sono sei carte di formato, oggi si direbbe A4 (un solo centimetro di differenza nella larghezza), piegate a metà sul lato lungo per formare un fascicolo non rilegato di 24 pagine che, come ha giustamente scritto Luisa Onesta Tamassia, Direttore dell’Archivio, si deve considerare la prima bozza di quella che sarebbe diventata la più importante dichiarazione di sostegno a quelli che oggi siamo abituati a chiamare “Beni Culturali”, prima dei provvedimenti moderni. A tale convinta posizione aveva aderito anche Francesco Paolo Di Teodoro che nel bel catalogo edito da Skira della citata mostra scriveva pagine importanti (pp. 69-73) che contestualizzavano quella bozza in rapporto alla futura legislazione sulla tutela delle opere d’arte. Infatti, il Chirografo di papa Pio VII Chiaramonti, nel lontano 1° ottobre 1802, proprio alla Lettera faceva ampio riferimento grazie alla cultura del suo estensore materiale don Carlo Fea, già Commissario alle Antichità prima di Antonio Canova che, a sua volta, ricoprì la carica di Ispettore Generale di tutte le Belle Arti per Roma e lo Stato Pontificio. In realtà l’attribuzione del testo al grande Urbinate non fu immediata perché – quando, nel 1733, fu pubblicata la lettera definitiva, ricavata da un manoscritto oggi perduto, per la prima volta (e anche per la seconda, nel 1769) –, la paternità fu data giustamente a Baldassarre Castiglione autore della sua forbita stesura stilistica. Ci vollero gli studi dell’abate Daniele Francesconi per capire, nel 1799, che i concetti contenuti nella Lettera erano nati dal genio di Raffaello. Così da questo momento in poi agli attributi agiografici del Sanzio già esistenti (divino pittore, sovrano della grazia e della bellezza e perfino tombeur de femme) se ne aggiunse un altro: primo Soprintendente alle Antichità di Roma. Contro questa visione romantica dei fatti storici si leva adesso l’autorevole e disincantata voce di Salvatore Settis che, insieme alla filologa Giulia Ammannati hanno pubblicato, per i tipi di Skira, un corposo studio che è destinato a essere una pietra miliare nella bibliografia del grande Urbinate. Il motivo è molto semplice e va cercato nel fatto che – al di là della nitida ricostruzione di Settis che ridisegna la personalità di Raffaello senza i luoghi comuni stratificatisi nel corso dei secoli – in quelle pagine sono messe a confronto le varie versioni della Lettera che fu concepita come un testo a quattro mani su cui i due autori lavoravano a stretto contatto di gomito. Abbiamo, infatti, in successione sinottica di grande chiarezza ed efficacia grafica, da sinistra a destra: la prima bozza (ovvero il manoscritto di Mantova), la versione finale della lettera, una scelta delle varianti più significative presenti nei manoscritti a noi noti e la cosiddetta “versione Raffaello” conservata grazie al manoscritto di Monaco di Baviera che può essere ragionevolmente considerata la minuta finale lasciata da Baldassarre Castiglione a Raffaello nel tardo autunno del 1519 perché vi lavorasse e vi aggiungesse quanto riteneva opportuno, prima della ripulitura finale che avrebbe preceduto una stampa che non c’è mai stata. Infatti, il manoscritto consta di paragrafi aggiuntivi che possono essere usciti solo dalla mente di Raffaello. Purtroppo il destino dispose diversamente e qualche mese più tardi, nella notte del Venerdì Santo del 1520, il grande Urbinate concluse la sua vicenda terrena. Per la verità si pensava che si fosse detto e scritto tutto il possibile intorno a questo documento, su cui si sono versati i proverbiali “fiumi d’inchiostro”, ma in realtà non è così, perché lo studio di Settis apre prospettive del tutto inedite, a cominciare dal fatto che sotto forma di panegirico, la Lettera è una sorta di rimprovero a Leone X. A dispetto della grande tradizione culturale della schiatta medicea da cui il pontefice proveniva, il Papa con il Breve del 27 agosto del 1515 (come dice lo studioso, «molto citato e poco letto») non attribuisce affatto a Raffaello la funzione di Soprintendente ante litteram, ma gli spiega che «...per costruire il tempio del Principe degli Apostoli in Roma [...] è di massimo interesse disporre di una gran quantità di pietre e marmi, e che è opportuno trovarli in patria anziché cercarli altrove, ho accertato che le rovine dell’Urbe ( Urbis ruinas) bastano a fornire in abbondanza tali materiali». L’unica accortezza che il pontefice raccomanda, è quella di “salvare” le scritte latine che potrebbero essere d’interesse culturale. Un po’ poco per un artista che aveva concepito e affrescato la Scuola d’Atene in un’architettura che nulla aveva da invidiare alle volte delle Terme di Domiziano o di Caracalla e per chi aveva strisciato fra gli sterpi per studiare e disegnare le bellezze antiche, come racconta in un passo che dà il titolo al libro: Raffaello fra gli sterpi. Le rovine di Roma e le origini della tutela (Skira). Allora l’idea fu quella di scrivere una lettera che si presentasse come un panegirico, ma che – in definitiva – indicasse al Papa la strada maestra da percorrere, evitando gli errori fatali per il patrimonio. Da navigato uomo di corte, Raffaello sapeva bene che doveva affascinare il potere e fare in modo che sembrassero sue le idee che andava a suggerire. Era l’unico modo per salvare Roma e trasformare il suo passato nel suo futuro.

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