martedì 23 agosto 2011
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Lì, mentre gli rinfrescavano le carni piagate dal sale, mentre lo immergevano nella vasca di acqua di fonte pura, e lo facevano bere, prima di riprendere i sensi, ancora cotto nell’incubo salmastro del mare, ebbe una visione. Un palazzo, come mai ne aveva veduti. Non una casa come la sua reggia, o quella più vasta e sontuosa del re di Troia, o quella favolosa del signore di Micene, no, un edificio immenso, più del palazzo di Minosse e del Labirinto. Circondato da mura, un fiume con laghi, e infiniti filari di alberi verdi e fioriti, sembrava una somma di tante case di re e sovrani, le sue pareti parevano e forse erano d’oro, le porte di pietre preziose blu e rosse scintillanti al sole. E vide un uomo, a cavallo, carico di merci, arrivare da lontano. Nel sogno, capì che arrivava da lontano. Da una città sul mare, no, non come le città che conosceva o di cui aveva sentito parlare. Una città edificata sull’acqua, acqua ferma, quieta, non tormentosa come quella del mare che da anni lo squassava, che ora lo aveva portato al confine con la morte per asfissia e sete. La visione si dissolveva mentre gli occhi si aprivano a fatica, come fessure tra le rughe della fronte e delle guance prosciugate dal sale e bruciate dal sole. Vide un volto chino su di lui, udì lievi grida allegre di ragazze, voci ridenti e sorprese, sussurri… Nausicaa… Poi gli occhi della ragazza cercarono i suoi, come per rianimarlo, ma ebbe uno spasimo, ricadde nel bruciante torpore che gli seccava le tempie e la gola. Gli versarono acqua in bocca, tanta acqua, a fiotti, sentì la gola che si rinfrescava, e panni bagnati sul viso, profumo di menta, anice, di fiori… non ricordava più che fiori, ma conosceva quel profumo. Non si riprendeva, dicevano le ragazze facendogli vento con ampie foglie di fico intrecciate. Bagnandogli il viso con panni impregnati d’acqua profumata. Ricordava quell’estremo abbandono, il fisico che cedeva agli stenti, la mente che già si lasciava sprofondare. Ma lo tenevano desto quelle voci femminili. Ridenti, come di sogno. Sognò, infatti, sognò ancora. Un’isola, non la sua, Itaca, e non quella dove era appena giunto, stremato, lieve, ridente, come sospesa in un soffio sul mare. Un’isola lontana, in un mare mai visto, se non in altri sogni. E un ragazzo, giovane più di suo figlio Telemaco, un ragazzino, che era salpato da un’altra isola, che forse un tempo aveva sognato. Fredda, avvolta di nebbie. E traversando un mare molto più vasto dell’arcipelago in cui da anni vagava, un mare gonfio e smisurato, era arrivato a un’isola, aveva raggiunto un luogo segreto, in una macchia, scavando nel suolo aveva trovato un tesoro. Più ricco del tesoro di Micene e di Tebe. Per giungere all’isola e trovare il tesoro aveva lottato con nemici pericolosi. Aveva vinto il mare e ucciso gli uomini che tramavano alle sue spalle. Nemici mascherati da compagni, in viaggio con lui, nella stessa nave. Ma non raccontò nulla di tutto questo, quando si riprese. Non gli interessava raccontare i sogni, ma solo la sua esperienza, le cose che aveva vissuto. E poi quel sogno, come altri, era in parte svanito nel momento in cui riprendeva i sensi. Non cancellato, ma a poco a poco dileguato, anche se, percepiva, non definitivamente, non per sempre. Poi a poco si svegliò, Nausicaa continuava a sorridere, si trovò nella corte di Alcinoo, re dell’isola dei Feaci. Mangiò, bevve, banchettò con loro, raccontò la sua storia. Ridevano, sembravano vivere in una magia aerea, lieve. Il mattino seguente volò su un loro legno senza vele, scivolò sul mare fino alle rive della sognata e scabrosa Itaca. Quante volte, la sera, al tramonto, un altro sogno lo aveva raggiunto. Lo ricordava, ormai, quasi fosse stato più che un sogno un avvenimento a cui aveva assistito realmente, e di cui poi per qualche ragione si era dimenticato, non per sempre, intuiva, non definitivamente. Una caverna, fuochi che venivano accesi da uomini vestiti di pelli di animali, cavalli e bisonti dipinti sulle pareti, dèi. Note e flauti ancora dipinti, e tamburi, e quando le torce illuminavano la caverna un uomo cominciava a cantare versi salmodianti, e altri davano inizio a una danza, potente, ossessa, unita al canto. Si sentiva rinascere nella caverna, una nuova forza si impossessava di lui. Poi, mentre il sole precipitava nel mare infuocandolo, si ridestava, alzava il capo. Sentiva il sordo e dolce rumore d’acqua della grotta sottomarina di Calipso, si preparava a scendere al talamo della ninfa, a unirsi a lei in una delle infinite notti senza tempo con la dea. Poi ci fu il cane Argo, che lo riconobbe, la repellente visione dei proci che avevano invaso la sua casa e banchettavano, la vendetta con l’arco infallibile, supportato dal fido e vigoroso Telemaco. E poi Penelope, e la prova del letto che egli stesso aveva costruito sull’olivo. Le raccontò la storia. Ricordò i pericoli terribili, i ciclopi mostruosi che si nutrivano di carne umana, i Lotofagi, che vivevano su un’isola toccando le cui rive scompariva nel viaggiatore ogni memoria, e tutta la vita scivolava in un oblio assoluto. Affetti, dolori, nome, patria, tutto svaniva nell’incantesimo narcotico di quella terra. E il terrore delle sirene, la cui voce incantava il marinaio conducendolo all’abisso, nel fondo del mare senza ritorno. E come si era fatto legare all’albero e aveva ordinato ai compagni di turarsi con cera le orecchie per non essere ammaliati da quel canto. E altri infiniti pericoli e vicende, e l’ombra della madre, muta, informe, nel cupo regno di Ade, e il fantasma di Achille, il grande eroe degli Achei, ridotto a ombra. Al mattino, ancora tra le braccia di Penelope, ebbe un sogno. Destandosi sapeva che era una visione. Fece chiamare il vecchio, che raccontava e cantava le storie, accompagnato dalla cetra. Sera dopo sera gli raccontò la storia di quella guerra e di quel viaggio , i tormenti e i prodigi di quel lungo ritorno per mare. Aveva compreso quale fosse il pericolo mortale: le sirene, i lotofagi, i portatori del nulla, e dell’oblio. La sua storia non poteva svanire. Sapeva che sarebbe apparsa, ad altri, in sogno, ma ora che era uomo e aveva vinto il mare e le insidie del nemico Posidone, ora sapeva che doveva sostenere, nutrire il sogno. Dopo poche notti il poeta narrava l’inganno del cavallo di legno, e la città in fiamme, e Circe e i compagni persi tra le onde, la sua storia. «Forse non è come l’ho vissuta io, ma come è stata vissuta davvero, fuori di me, con me attore. Forse è quella che qualcuno sognerà o ha sognato prima che vivessi io stesso quell’avventura. Così, recitata dal poeta, è come la vivo, a volte, nei sogni bianchi del mattino. Identica, negli avvenimenti, nelle storie, nei nomi. Ma più bella, perché più vera. Vivendola credevo fosse solo la mia vita. Ascoltandola nel canto del poeta, ora io comprendo, come chi l’ha sognata, o la sognerà, o la sogna, che questa non è solo la mia vita, questa è la vita, l’aspirazione di ognuno, questa è la poesia, questa è l’avventura».
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