lunedì 26 maggio 2014
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​Avevo appena visto un documentario su Claudio Abbado quando ho ricevuto l’invito a partecipare al festival di Pistoia dedicato all’antropologia. Quest’anno i "Dialoghi sull’uomo" hanno come tema centrale la condivisione e mi era sembrato che per l’intera durata del documentario Abbado non avesse parlato che di questo. «Più si dà più si riceve», diceva aprendo i suoi disarmanti occhi da sognatore, «con la musica è lo stesso. Durante il concerto non puoi parlare, allora ti servi dell’espressione delle mani, dello sguardo, del contatto». Aveva usato proprio questa parola: contatto. Gli stessi musicisti chiamati a testimoniare la loro esperienza col direttore (orchestrali dei Wiener e dei Berliner Philharmoniker, della Gustav Mahler Jugendorchester, l’orchestra dei giovani fondata da lui, come la Mahler Chamber, l’orchestra Mozart e quella di Lucerna) ribadivano come una sorpresa l’insegnamento che avevano ricevuto, semplice eppure tutt’altro che comune: fare musica insieme, crescere insieme, ascoltarsi. Ovvio per un’orchestra, si potrebbe osservare, ma invece tutt’altro che evidente. Abbado parlava dei musicisti con cui lavorava da anni come di amici che hanno la passione e l’entusiasmo di suonare insieme e che si capiscono con un’occhiata. Uno dei musicisti, oboista mi pare, faceva un esempio bellissimo: «Abbado non dice mai il primo violino è troppo forte o l’oboe troppo debole. Dice: ascolta, ascolta per favore, ascolta bene. Se il primo flauto che suona vicino a te cambia sfumatura, gradazione, la abbassa un po’, seguilo. Non aspettare che sia io a dirti cosa fare: è l’insieme che te lo dice». Con queste parole nelle orecchie, aveva subito pensato che di questo avrei parlato: del vedersi l’un l’altro, dell’accorgersi di chi ti sta di fianco, dell’ascoltarsi, condizioni indispensabili alla condivisione. Così mi sono messa a cercare, nella tradizione letteraria, poetica, spirituale, musicale, riflessioni, racconti e versi che esprimessero questa necessità. Ho intitolato il mio intervento Eyes wide open: è vero, un’espressione inglese, ma che dice perfettamente questo concetto. Si può tradurre «a occhi completamente aperti», ma rimanda a qualcosa di più profondo: alla piena consapevolezza che deriva dal guardare dandosi conto di ciò che si vede. Senza questa forma di attenzione, questo modo di essere che porta a interrogare di continuo ciò che accade davanti e intorno a noi, condivisione resta una parola vuota. Gli esempi che ho trovato, muovendomi con libertà in epoche e culture molto diverse tra loro, sono più convergenti di quanto avessi immaginato: vengono da Pessoa, da Saba, da Wim Wenders, ma anche da Buddha e al-Ghazâlî, da Angela da Foligno e Teresa di Calcutta, da María Zambrano e da Sartre, da Marina Cvetaèva e Wislawa Szymborska, e poi da Bach, Verdi, anche da Gino Paoli e la sua canzone A occhi chiusi e da Gianna Nannini e la sua opera su Pia de’ Tolomei.  Ad esempio Saba, nella poesia Il borgo, comunica «il desiderio improvviso d’uscire / di me stesso, di vivere la vita / di tutti, / d’essere come tutti / gli uomini di tutti / i giorni», e la gioia che ottiene dall’essere «questo soltanto: fra gli uomini / un uomo». Baudelaire gli fa eco, in un "contatto" ideale e sovratemporale, in una pagina di Lo spleen di Parigi. Una sera, camminando per la città, è attirato da una finestra chiusa, illuminata da una candela, e da quello che vede dietro il vetro: «Una donna matura, già piena di rughe, povera, sempre china su qualcosa». Mentre ritorna a casa, prova a ricostruire la storia di quella donna e raccontandola a se stesso piange. «Quando mi corico – dice – sono fiero di avere vissuto e sofferto in altri diversi da me». Ecco, sono questi gli occhi completamente aperti di cui ho cercato e trovato esempi: occhi che guardano senza giudizio preventivo, che non prevaricano, ma ospitano, che non si sovrappongono, al contrario, semmai si sbriciolano in quello che vedono.Visibilità, esposizione sono quasi parole d’ordine in questi ultimi anni. Ma nel nostro offrirci agli sguardi così come nel nostro ossessivo guardare c’è un momento in cui riveliamo noi stessi o veramente gli altri? Ci si può mostrare in ogni parte del corpo, in ogni atteggiamento dell’anima, ma non dare nulla di sé. Viceversa, in un dettaglio si può trasmettere qualcosa di importante. Succede nella fotografia del ragazzo con il braccio disteso che Roland Barthes, grande indagatore di segni, interroga nel suo libro La camera chiara. Grazie a quel braccio aperto, l’attenzione, il desiderio vanno al di là di ciò che la fotografia fa vedere: vanno verso «l’eccellenza assoluta di un essere, anima e corpo fusi insieme», scrive Barthes.In L’uomo e il divino María Zambrano afferma che «la vita umana ha bisogno di vedere per essere vita» e aggiunge: «La visione libera la vita». La libera quando nello sguardo non ci sono volontà di possesso, di sorveglianza, di controllo sull’altro, e gli occhi aperti accolgono un mondo che non è il proprio, andando incontro anche alle divergenze. Ascolta, per favore, guarda bene, sembrava suggerire Abbado rispondendo alle domande dell’intervistatore nel documentario: è il rapporto con l’altro che ti dice cosa fare, che ti aiuta a vivere, che ti dice chi sei.
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