mercoledì 4 febbraio 2015
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La tecnologia sembra non avere niente a che fare con le emozioni, ma basta leggere il racconto del professor Claudio Ronco nel libro Carpediem (Angelo Colla editore, pp. 256, euro 16,50) per commuoversi alle stupefacenti prestazioni di una macchina e di un’équipe medica che salva una neonata destinata a morte certa. Nefrologo numero uno al mondo secondo la classifica della John Hopkins University, docente in università americane, europee e cinesi, Ronco ha fondato nel suo ospedale di Vicenza l’avveniristico International Renal Research Institute, una struttura che raduna in un’unica sede l’assistenza al malato, una ricerca all’avanguardia e una didattica sviluppata sul campo. Qui ha creato “Carpediem”, la prima macchina al mondo per la dialisi neonatale, una sorta di rene artificiale per neonati che offre una possibilità di sopravvivenza a casi prima considerati disperati.  Parte proprio da qui, la storia raccontata nel libro. Lisa è vittima di uno shock emorragico durante il parto, l’insufficienza renale sta per esserle fatale, ma i medici prima di rassegnarsi telefonano al professor Ronco, a Budapest per una conferenza, e seguendo le sue istruzioni applicano per la prima volta la nuovissima macchina “Carpediem”. Il libro segue in parallelo il percorso di due vite, quella di Lisa in tempo reale, quella di Claudio Ronco in flash back. Un espediente molto “americano”, quello dei due piani narrativi, come si è regolato nella stesura? «Tutto è cominciato quando raccontai a un amico questa magnifica esperienza. L’enfasi era probabilmente tale che mi esortò a metterla per iscritto. Iniziai come per gioco, dato il lungo tempo che passo in aereo, a ripercorrere la storia di Lisa come l’avevo vissuta, includendo tutti i ricordi e i pensieri che nelle lunghe notti di ospedale mi erano passati per la mente. Per pura combinazione le due storie, scritte in una continua alternanza, sono terminate assieme e si sono fuse nelle pagine conclusive».  Figlio di un medico condotto di montagna, lei ha fatto molti mestieri per realizzare i suoi sogni, con una curiosità aperta ai più diversi campi, dall’ingegneria alla chimica, realizzando invenzioni che hanno cambiato la vita dei malati renali. È stato questo approccio multidisciplinare, la chiave del suo successo? «Si può sempre migliorare, quindi non mi considero arrivato, diciamo che queste soddisfazioni che si materializzano lungo il percorso sono il frutto di una mescolanza di fattori: la voglia di fare, un perenne senso di inadeguatezza che ti porta a cercare di fare di più, amici e colleghi meravigliosi, uno spirito libero, il desiderio di trasmettere ai ragazzi giovani il mio sapere, la visione dell’uomo come una unità in cui le malattie sono tutte collegate e quindi possono essere sconfitte solo con un approccio totale e multidisciplinare». Un medico come lei, attento alla persona e non solo ai sintomi, che parla in “malatese” e non in “medichese”, non è in via di estinzione nell’attuale sanità iperspecializzata? «Purtroppo siamo sempre più carichi di burocrazia e sempre più stanchi per turni massacranti. Spesso c’è poco tempo per insegnare e trasmettere esperienza. Mi piacerebbe avere cinque minuti faccia a faccia con il nostro premier. Sono certo che ascolterebbe volentieri le necessità della ricerca, della didattica e della sanità italiane dalla voce di un medico qualunque che proporrebbe delle soluzioni pratiche. Guardiamo ai risultati ed evitiamo di continuare ad aggiungere norme. Più norme ci sono e meno risulta chiaro quale sia la missione e l’obiettivo finale». La parte più amara del libro riguarda le difficoltà incontrate in Italia negli ambienti accademici e ospedalieri. Secondo lei quali sono le priorità per cambiare qualcosa in Italia? «Un reparto ospedaliero dovrebbe dipendere dall’impostazione del primario. In ospedale oggi i medici sono tutti dirigenti di pari livello. Qualifica unica, scala del merito assente: dov’è la motivazione a migliorare? Oggi, con la legge Balduzzi, la commissione crea una graduatoria con punteggio rigido lasciando tuttavia ampi spazi per contestazioni sulla valutazione dei titoli o sulla metodologia del concorso. Norme concorsuali complesse producono spesso ricorsi e annullamento del concorso. Ma i cittadini, chi vorrebbero alla guida di un reparto? Semplice, il più capace. E dovrebbe potersi scegliere personalmente i collaboratori. All’estero, il direttore o il Cda dell’Ospedale esaminano una rosa di candidati, fanno dei colloqui, valutano le raccomandazioni e scelgono insindacabilmente la persona più adatta. Non il più bravo, non il migliore secondo i titoli, ma il più adatto a realizzare quanto l’ospedale ha in animo di fare. Finiamola con i concorsi e miriamo a scelte responsabili». Le cattedre e i primariati che l’Italia le ha sempre negato le sono stati offerti a New York, ma lei ha preferito legare il suo nome e la sua attività a Vicenza, una scelta identitaria importante in quest’epoca di fuga dei cervelli. Consiglierebbe il suo percorso alle giovani generazioni? «Col cuore certamente. Con la testa non lo so. Dipende dal giovane e dipende dalle circostanze. Ma vorrei che il mio libro trasmettesse fiducia nel futuro».
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