mercoledì 2 settembre 2020
Le presidenziali Usa si giocano da sempre su una narrazione simbolica e mitica del passato nazionale. Un fatto che solleva la questione del rapporto tra monumenti e patrimonio etico
Manifestanti a Washington cercano di abbattere la statua del presidente Andrew Jackson, accusato di razzismo, nel giugno scorso

Manifestanti a Washington cercano di abbattere la statua del presidente Andrew Jackson, accusato di razzismo, nel giugno scorso - Reuters/Joshua Roberts

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La campagna presidenziale statunitense, che vede lo scontro fra i candidati Donald Trump e Joe Biden, si è avviata verso la fase più intensa e agguerrita. La distanza tra le due fazioni non potrebbe essere più netta e viene emergendo in un contesto di violenta tensione sociale, culminata con l’uccisione di due manifestanti del movimento Black Lives Matter per mano di un giovane armato di fucile. Alla determinata insistenza del fronte democratico sui temi dell’eguaglianza, delle pari opportunità e della lotta al Covid, i repubblicani oppongono la rivendicazione di una leadership forte, intenzionata a difendere la sicurezza nazionale e l’integrità del secondo emendamento che legittima il possesso delle armi da parte dei cittadini.

Su una questione i due partiti sembrano condividere una strategia: quella del richiamo alle origini della nazione, alle radici che hanno portato l’America a essere una delle più grandi potenze del pianeta. È stata questa la scelta di Barack Obama, che per il suo speech a sostegno di Biden ha scelto di parlare da Philadelphia accanto a un’immagine della dichiarazione di indipendenza, mentre il repubblicano Mike Pence ha offerto il suo appoggio a Trump nello scenografico parterre di Fort McHenry, conosciuto per lo scontro avvenuto nel 1814 con la flotta britannica, vittoria che ispirò il testo dell’inno nazionale.

Simboli e monumenti dominano la politica statunitense in un processo che conduce alla riscrittura costante della storia. La protesta contro la violenza sulla popolazione afroamericana sta montando come un’onda inarrestabile, chiamando in causa i simboli e la narrazione della storia nazionale. I numerosi episodi di abbattimento delle statue dei generali sudisti erette durante il periodo delle leggi di segregazione razziale ( Jim Crow, 1876-1964) – ma anche gli assalti a monumenti di presidenti come quello ad Andrew Jackson, accusato di aver deportato i nativi americani – ha assunto una tale rilevanza da entrare nel discorso politico: Trump difende i monumenti e promette punizioni esemplari per chi ne comprometta l’integrità; Biden ne rileva l’incongruenza col sentimento e i valori della democrazia, ma ne sostiene la custodia all’interno dei musei, affinché se ne fornisca una corretta interpretazione.

La questione riveste un enorme interesse sia sotto il profilo politico che socioculturale e si impernia sul significato dei monumenti pubblici e sul ruolo che esercitano sulla memoria e la coscienza collettiva. Nel sistema democratico il monumento svolge una funzione comunicativa di suggello dei valori comuni, istruisce e incarna sentimenti condivisi; esso si attiva nella dimensione di uno spazio praticato da ciascun cittadino e percepito come terreno di esercizio dei diritti e dei doveri. Il monumento assume così un significato di conforto, di quotidiana presenza del discorso politico: individua luoghi di aggregazione, orienta il comportamento del cittadino. Ne consegue una cruciale equazione: non può esserci disallineamento tra patrimonio etico e realtà monumentale, perché laddove l’opera pubblica si discosta dai valori comuni, essa risulta come una ferita, una violazione del legame tra Stato e cittadinanza.

Nel 1792, nella Francia rivoluzionaria, venne decretata la sostituzione delle statue dei monarchi assolutisti con immagini consone al regime repubblicano: «I sacri principi della libertà e dell’uguaglianza non permettono certo di lasciare ancora a lungo, sotto gli occhi del popolo francese, i monumenti innalzati all’orgoglio, ai pregiudizi e alla tirannia». Poco dopo, Tocqueville osservava che in democrazia i monumenti sono utili ad alimentare l’immaginario «sconfinato» del cittadino che si relaziona così con l’idea di Stato. Ma in tale corrispondenza, per l’appunto, deve stabilirsi una piena immedesimazione tra identità individuale e collettiva. La furia devastatrice esplosa negli Stati Uniti nei confronti delle statue dei generali sudisti è il segnale di un disagio diffuso e di una fragilità del rapporto tra cittadinanza e memoria storica: una discontinuità di valori e di principi che la stessa campagna presidenziale rivela ogni giorno.

Al contempo, il dibattito sui monumenti solleva la questione della consapevolezza civica e del rapporto tra storia e memoria, in un Paese che proprio per la sua pluralità necessita di equidistanza e chiarezza del messaggio pubblico. Il richiamo all’unità nazionale che domina i discorsi dei candidati, seppure con argomenti opposti, evidenzia il bisogno di una dimensione comune di riferimento civico e identitario, capace di sostanziare in modo egualitario la retorica del sogno americano.

Non c’è elaborazione della coscienza civica senza un confronto con la storia: la guerra alle statue dei confederati esprime disagio verso un passato non risolto. La condizione instabile della democrazia si misura anche nello scollamento tra opere pubbliche e valori comuni. Quello che potrebbe apparire come un tema marginale rivela dunque un potenziale fortissimo, perché i simboli possono alimentare (o distruggere) i sogni e le speranze dei popoli. Emerge così una ulteriore, appassionante sfida per i volenterosi paladini della giustizia e dell’equità sociale come auspicava Hannah Arendt in Vita Activa: «Solo dove le cose possono essere viste da molti in una varietà di aspetti senza che sia cambiata la loro identità (…) la realtà del mondo può apparire certa e sicura».

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