martedì 2 dicembre 2014
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Via Cesare Pavesi, via Emanuele Artom, via Domenico Millelire. Sono le strade dov’è approdata la speranza di un futuro migliore, quel sogno inseguito per l’Italia intera da un flusso continuo di 25 milioni di emigranti che fra il 1955 e il 1970 si è spostato, soprattutto dal Sud, nel triangolo industriale, fra Torino, Milano e Genova. «Ogni giorno centinaia di persone arrivavano alla stazione di Porta Nuova a bordo del Treno del Sole. Le fotografie in bianco e nero dell’epoca ci raccontano gli sguardi spaesati delle persone di ogni età che appena scese sulla banchina con la loro valigia di cartone, camminavano verso la grande città con la speranza di un avvenire fortunato», ricorda l’antropologo urbano Dario Basile. «Si è creduto – continua il ricercatore dell’Università di Torino – che il boom economico fosse il “miracolo”. In realtà, spesso non fu così “miracoloso”. Chi arrivava in queste città viveva in condizioni al limite dell’umano, in quartieri degradati nati da zero nelle periferie delle città o vicino alle grandi fabbriche. Spazi disgregati, non comunicanti con il resto del tessuto urbano. Città nelle città». Tutto questo è stato raccontato bene da tanti e importanti lavori documentaristi, come I terroni in città di Francesco Campagna del 1959 o L’immigrazione meridionale a Torino di Goffredo Fofi del 1964. Ma cos’è successo dopo? Cos’è successo ai loro figli? Basile accende un faro su questo lato oscuro, “invisibile” della grande migrazione interna italiana, ripercorrendo le vie dei “cattivi ragazzi”, dei figli dei meridionali, a Torino (in libreria con Le vie sbagliate, Edizioni Unicopli, pagine 204, euro 15, che sarà presentato domani alle 11 a Torino, nell’Auditorium Quazza dell’Università, in via S. Ottavio, 20: interverranno i docenti Paola Corti e Franco Prono, e saranno proiettati spezzoni dello storico film di Gianni Serra, La ragazza di via Millelire). «Tra coloro che non sono usciti vincitori da quella stagione – argomenta Basile – ci sono molti figli del “miracolo economico” costretti a vivere una gioventù piena di difficoltà. In quelle vie non c’era nulla. I padri lavoravano come operai, ma i figli stavano per strada. Vivevano lì, fra casermoni costruiti frettolosamente. Così lontani dal “centro” che quando andavano a fare una passeggiata in città dicevano… “Andiamo a Torino?”. Erano riconoscibili, erano “segnati”. Soggetti a delinquere, a fare banda – i Pavesini – un’orda di invasori che scorazzavano per le periferie di Torino fra i quartieri simbolo di quel fenomeno: Le Vallette-Lucento, Aurora-Rossini-Valdocco e Barriera di Milano. Gli archivi raccontano che nel 1979 gli istituti di detenzione minorile fossero pieni quasi completamente di meridionali o veneti. Immigrati. Figli di immigrati». Così le vie “sbagliate” e la città non si parlavano. «La questione del “non si affitta ai meridionali” è stata probabilmente un falso problema - dice Basile - anzi forse quei cartelli non sono mai esistiti. In ogni caso non era quello il punto. Il sospetto è che verso i “terroni in città” si sia passati da un razzismo esplicito, fatto di pochi cartelli appesi davanti alle case, a un razzismo implicito, silente, più pericoloso e infido, delle cose non dette, ma che di fatto escludeva gli immigrati prima e i loro figli poi. Gli immigrati meridionali finiscono così per rimanere incapsulati in una rete “povera”, fatta di ultimi arrivati che si aiutano reciprocamente». Ma non finisce qui. «Questa differenza di posizione sociale fra piemontesi e meridionali sembra perpetuarsi anche nella generazione successiva: mettendo a confronto le carriere di quarantenni torinesi, distinti fra piemontesi (figli di padri piemontesi) e meridionali (nati al sud o figli di genitori meridionali), se tra i figli di piemontesi gli operai sembrano ormai rari (il 9%), tra i figli dei meridionali uno su tre fa l’operaio. E se un terzo dei quarantenni piemontesi ha raggiunto posizioni nelle classe medio-alte, pochissimi meridionali ci sono riusciti». Lo stesso vale nella scuola: nel censimento del 1981, se più del 70% dei torinesi aveva ottenuto un diploma, la percentuale scende al 30% fra i giovani meridionali. Non c’è stato un riscatto. Anzi, s’intravede quella sorta di “cultura della povertà” teorizzata dall’antropologo Oscar Lewis che si tramanda di generazione in generazione.Solo alla fine degli anni Settanta comincia un dialogo fra le istituzioni, il sindaco di allora Diego Novelli, la magistratura, la Chiesa per abbattere i tanti muri che separano la città dalle periferie. «Si capisce che non è la repressione che può aiutare questi ragazzi, ma la creazione di attività e servizi. Come dimostrano anche numerosi studi americani». Un ruolo centrale lo svolge la Chiesa. «L’arcivescovo di Torino, il cardinale Michele Pellegrino, fu il primo a spingere per portare la Chiesa in attività di frontiera – ricorda Basile –. Don Luigi Ciotti iniziò proprio da lì i percorsi educativi del gruppo Abele. C’era “la missione con le ali” di don Paolo Gueriglio, il cosiddetto “prete aviatore”: aveva il brevetto da pilota e ogni tanto faceva fare un giro a quei ragazzi. Li faceva volare. Per guardare la città con occhi diversi».Ma la storia “locale” di Torino si fa generale: aiuta a leggere fenomeni avvenuti in altre città e in altri tempi; ai nostri emigrati all’estero delle tante Little Italy sparse nel mondo; quello che è accaduto e accade nelle banlieue francesi. «Ci aiuta soprattutto a guardare all’immigrazione di oggi, nel nostro Paese – spiega Basile – con le difficoltà, le attese, le speranze spesso tradite di chi supera il Mediterraneo per approdare in Europa. Di fatto i nuovi immigrati, stranieri, arrivano nelle stesse vie che furono dei meridionali degli anni Cinquanta. È una storia che ci aiuta a contrastare la strana idea che i ragazzi stranieri si comportano male e delinquono a causa del loro retroterra culturale. No, il vero problema è la marginalità. È l’essere tagliati fuori dalla città. Ed è su questo terreno che si gioca la sfida delle politiche di governo: mettere al centro le periferie, arginare i fenomeni di degrado, parlare con le persone, stimolare l’integrazione, nei quartieri e nelle scuole. Questa è la via giusta». Una marginalità che non vivono probabilmente i nuovi emigranti dal Sud, i 100mila che ogni anno secondo la Svimez lasciano ancora le regioni meridionali per cercare un posto di lavoro. O inseguire un sogno. «Perché – dice Basile – sono soggetti del tutto diversi. Negli anni Sessanta era gente non qualificata, senza un mestiere, che andava a prestare le proprie braccia per la manodopera della grande industria. Oggi partono ragazzi scolarizzati, laureati. Un fenomeno ancora peggiore, perché drena le energie migliori dal Sud ed è sostenuto economicamente dalle famiglie stesse. Una emigrazione diversa: questi ragazzi non arrivano nelle “vie sbagliate”. Di sbagliata c’è la “via” di sviluppo del nostro Paese. Ma questo è un altro discorso…».
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