venerdì 8 novembre 2013
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Non ha prezzo, ma per poterlo leggere devi conquistartelo, senza risparmio. E quando finalmente ne apri le pagine, puoi anche scriverci dentro: sei l’ultimo autore arrivato. È una lettura riservata a pochi, un premio che non si possiede per sempre, il libro di vetta. Ovvero quella sorta di registro dalle pagine bianche o ingiallite, raggiunto dagli alpinisti dopo l’ultimo tiro di corda e la stretta di mano sulla cima. Vi possono segnare la data, la via seguita, ripetizioni o varianti. O lasciare qualche annotazione: dediche a chi non c’è più, auguri a chi ci tornerà, frasi poetiche ispirate dall’attimo fuggente, pensieri macerati durante l’ascensione. Per questo si può considerare un diario collettivo della gente di montagna, fonte talora ammuffita, ma ancora utile per una ricerca storica: «Un vero e proprio tesoro della memoria», lo definisce Reinhold Messner. In principio erano foglietti o biglietti da visita. Fin dagli albori, i primi salitori vollero mettere la propria firma sulla cima. Qualcuno li lasciava in una scatoletta del cibo o in un contenitore di vetro, tanto che già nel 1874 sulla regina delle Dolomiti, la Marmolada, una spedizione trovò «poco al di sotto della cima, verso sudovest, una bottiglia difesa da pochi sassi che conteneva i nomi degli alpinisti che avevano visitato la Marmolada prima di noi». Per resistere a bufere e tempeste, più del contenuto apparve già allora importante il contenitore: «Nel tempo alle bottiglie si avvicendarono i contenitori di cibo in scatola che guadagnavano in leggerezza e resistenza agli urti, a scapito però della tenuta stagna. Solo molti anni dopo si arrivò a una standardizzazione del libro di vetta, si definì come conservarlo e dove custodirlo», spiega Claudio Ambrosi, che ha studiato questo «rituale d’alta quota», come archivista della Sat (Società Alpinistica Tridentina), che custodisce a Trento oltre 600 libri di vetta, "scesi" da novanta cime trentine. Li ha analizzati per la prima volta come un campione significativo la scrittrice, filosofa e sociologa, Astrid Mazzola, che nel fresco libro Firme in cielo (edito da Il Margine di Trento, con un contributo dello stesso Ambrosi) ci svela molto di quanto i libri di vetta hanno conservato: «Esposti a tutto, vessati dall’ora più aspra del giorno e dalla notte più tormentata dell’anno, continuano a portare in sé, stretto sotto le copertine sbiadite e pasticciate dagli eventi, il loro segreto tesoro di anime per affidarlo a qualcuno, come bottiglie lanciate nell’oceano». Sulle tre torri del Vajolet, nel cuore del Catinaccio, in un pomeriggio di fine settembre lo scalatore F. annota sul libro di vetta della Winkler: «Sole - neve - colore - pace. Nulla ci si poteva augurare di più se non il volo dell’aquila». Sull’altra torre invece, la Delago dallo spigolo verticale, qualcuno ha superato qualche passaggio da brivido: «Se sulla Stabeler l’era fifa – scrive in dialetto trentino – qui l’è na disperazion». Andando a «ricucire pezzetti di anime e intrecciare percorsi di vita» Mazzola rintraccia in questi brevi scritti i valori tipici dell’esperienza montanara: la lotta con la fatica e la natura, la felicità "qui ed ora", l’amicizia gustata nel silenzio, il ricordo dei caduti, lo stupore e la meraviglia, la vicinanza al Creatore, il dialogo con l’immensamente grande: «Sopra tutte le cime è pace», cita perfino Goethe una compagnia di amici nel libro di Cima d’Asta, massiccio del Lagorai. Oltre a documentare le imprese alpinistiche, i libri di vetta sono serviti a scrivere la storia (risulta ad esempio che Alcide De Gasperi mise piede sulla torre Winkler, in Vajolet) di persone e personaggi: il cartoonist Bruno Bozzetto portò il suo Signor Rossi sul Castelletto Inferiore del Brenta, mentre nel 1952 un missionario salutò la sua partenza per il Pakistan dalla cima del Cimon della Pala, nel Primiero. Testimoniano anche il clima ostile delle guerre o le passioni dei giovani fascisti che "inneggiano al Duce" sulla cima del Catinaccio: «Pfui», commenta qualcuno, con anonima risposta. E poi la tensione ecologista, con i moniti a lasciar pulita «almeno la vetta», o i rigurgiti sessantottini che fanno scrivere a uno «Sconvolto78» la frase: «Anche con lo spinello si arriva in cima». Non sfugge ai libri di vetta la presenza di gruppi parrocchiali e associazioni studentesche in cordata dietro dimenticate figure di "preti con lo zaino". Gli autori più citati? Virgilio, Manzoni e naturalmente Leopardi, ma c’è anche chi attinge alla propria vena poetica e chi ricorre alla sapienza dei salmisti. Echeggia forte la spiritualità montanara nelle pagine d’alta quota: «Penso a quanto Dio è grande nella sua creazione», afferma Alcisa il 4 ottobre 1991 citando San Francesco e le sue laudi, mentre lo studente universitario Giampaolo il 12 agosto 1952 scrive in Punta Penìa sulla Marmolada: «Ore 6. Su tutte le cime silenzio: /se tu taci/ Lo senti, Lo vedi/ è in te».
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