mercoledì 19 febbraio 2014
La rivoluzione del genio matematico-economico Paul Wilmott contro la cultura che ha generato la crisi globale: «I conti della serva spiegano più degli algoritmi»
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Sono i giorni concitati dello scandalo Mps. La magistratura scartabella i bilanci della banca più antica al mondo - vecchia ge­stione - e spuntano come funghi opera­zioni finanziarie oscure dai nomi seducenti o inquietanti. Ce n’è per tutti i gusti: 'San­torini', 'Alexandria', 'Cheyne', 'Anthra­cite'… Chiediamo lumi, per provare a galleggiare in questo ma­re di matematica sofisticatissima, a uno che di algorit­mi e soldi se ne intende. Anzi: di matematica spalmata sulla finanza, dicono, Paul Wilmott sembra capirne co­me pochi al mondo. Il Financial Times lo considera 'un insegnante di culto', per il Sunday Business è addirittu­ra 'il Mozart dell’industria finanziaria'. In gergo mister Wilmott è un 'quant', emulo del primo e più grande fra tutti, Fisher Black, esperto a un tempo di modellistica fisica, strumenti matematici e capacità computaziona­li applicati alla finanza. Solo che, a differenza dei con­fratelli quantitativi, questo londinese tranquillo, figlio di un contabile e di un’imprenditrice, è un 'quant ribelle'. Wilmott risponde subito alla richiesta di aiuto. Ma quan­to adduce è di primo acchito spiazzante: «Mi spiace, non è proprio la mia materia», si scusa. Vorrebbe darci una mano, aggiunge, ma la questione è troppo complicata: «Non capisco - afferma - non so». Potrebbe anche suo­nare come un diniego cortese. In realtà, avendo in men­te chi è Paul Willmott, emerge tra le righe un atteggia­mento in linea con la battaglia che 'il quant ribelle' con­duce da oltre un decennio contro la deriva matematiz­zante della finanza. Una guerriglia all’ultima formula culminata in un vero e proprio 'Manifesto' firmato nel 2009 insieme al collega Emanuel Derman, all’epoca di­rettore del Master in Ingegneria finanziaria alla Colum­bia University, un sessantenne sudafricano laureato in fisica delle particelle e soprannominato perciò 'l’Einstein di Wall Street'. Il pamphlet riecheggia sin dall’incipit il celeberrimo an­tesignano. Anche il 'Manifesto dei modellizzatori fi­nanziari' si apre infatti raccontando di uno spettro che si aggira per il mondo. Non perseguita i lavoratori - in prima battuta, almeno - , ma i nuovi investitori: «Lo spet­tro della mancanza di denaro, del congelamento dei conti correnti, e del fallimento dei modelli finanziari». Pure Wilmott e Derman immaginano una 'rivoluzio­ne', in questo caso epistemologica, contro cultura e pra­tiche all’origine dell’ultima grande crisi globale: «I mo­delli familiari di valutazione - sostengono - sono diven­tati inaffidabili. Nonostante ciò, tutti gli operatori del ri­schio hanno ascritto le proprie perdite a uno tsunami irripetibile». Ecco perché, suggerisce il loro Manifesto, i veri analisti quantitativi dovrebbero sottoscrivere una sorta di giuramento d’Ippocrate. Cinquantadue anni poco scalfiti, Wilmott ha fatto da giovane fortuna con i numeri. Studente a Oxford si pa­gava la birra esibendosi per strada con le clavette da gio­coliere. Poi ha fondato diverse imprese applicando gli algoritmi alla finanza, compreso l’hedge fund da 170 mi­lioni di sterline chiuso nel 2005 dopo il ritiro dei soci. Og­gi passa buona parte del tempo in famiglia e dirige la ri­vista più costosa al mondo: ci vogliono 600 dollari per abbonarsi ai sei numeri del Wilmott Magazine. La scor­sa estate è uscita una raccolta degli articoli più brillanti comparsi negli ultimi 10 anni. Il bimestrale di satira e fi­nanza ospita spesso editoriali di matematici ed econo­misti di fama mondiale. Geni dei numeri, precisa Wil­mott, «che hanno preferito guadagnare soldi piuttosto che ricevere il Nobel». Come Edward O. Thorp, che sco­prì per primo il modello matematico con cui battere il croupier a Blackjack, ma si è visto soffiare il brevetto. Di questo ne sa qualcosa la Columbia University, «maestra indiscussa - a detta di Wilmott - nell’accaparrarsi le idee di altri al fine di goderne i diritti». Se non è in viaggio (per piacere, con la famiglia, moglie e due figli, Oscar e Za­chary, entrambi col pallino dei numeri) tiene conferen­ze - è stato anche ospite al Festival della Letteratura di Mantova - , cura il suo blog, insegna e non smette di stig­matizzare quello che spiegò in un famoso articolo del 2000, il cattivo uso e l’abuso della matematica nella fi­nanza ('The Use, Misuse and Abuse of Mathematics in Finance'). Fu in quella pubblicazione che Wilmott spiegò per la prima volta come persino il colosso Procter&Gamble si fosse fatto fregare e quasi mettere in ginocchio dai de­rivati. Perché i suoi manager strapagati non erano in grado di leggere tra le righe (e le formule) i termini di quel­la che si sarebbe presto rivelata una scommessa persa. Wilmott dimostrò come tali previsioni astruse e poten­zialmente disastrose fossero in realtà intellegibili grazie a semplici 'back-of-an-envelope calculations', i cosid- detti 'calcoli sul retro della busta'. I conti della serva, in­somma. 

Nello stesso articolo paventava un collasso dei mercati finanziari guidato proprio dagli 'abusi' mate­matici, tracollo che puntualmente si verificò otto anni dopo, ed ebbe quale epilogo la drammatica bancarotta di Lehmann Brothers. Nello splendido documentario Quants: The Alchemists ofWall Street , scritto e diretto da Marije Meerman, Wilmott si lascia andare a una fuga­ce autocritica: «Forse avremmo potuto fare di più». Co­me? «Intervenendo quando tutto è iniziato».  «Quando» sono i primi anni Settanta. Fu l’inedito mo­dello di Merton-Black-Scholes a inaugurare l’era della matematizzazione in finanza. Una vera e propria rivo­luzione. Oltre a mettere in campo i tipici strumenti del­la fisica matematica - come il tempo continuo, i processi stocastici e le equazioni differenziali - il modello ha u­nificato le metodologie di valutazione dei prezzi e dei rischi. La valutazione degli asset , cioè, ha iniziato ad es­sere utilizzata anche per misurare i rischi connessi agli investimenti, mentre l’analisi dei rischi ha cominciato a sfornare una ridda di algoritmi capaci di assegnare un prezzo agli asset . Sono proprio i modelli e le formule con cui viene assegnato un prezzo ai prodotti derivati che Wilmott smonta uno dopo l’altro durante il corso di 'Fi­nanza quantitativa' che tiene ormai da anni nel cuore della City. Per stanare i quant e dare una sveglia all’in­tero sistema. Perché «quello che una volta era un busi­ness da gentiluomini - scriveva Wilmott già nel suo pri­mo lavoro - è diventato un gioco per giocatori». E i gio­catori sono tecnicamente sempre più sofisticati. «Negli anni Settanta - sostiene - avrebbero studiato Storia ad Oxford. Negli anni Novanta era diventata invece quasi una moda per le banche d’affari assumere i cosiddetti 'East-end barrow boys', i perditempo dell’East End, spesso privi di educazione universitaria, ma con gran­de istinto per gli affari e pari sfrontatezza». Serve «gen­te fiera, furba e attenta», ghignava Gordon Gekko nel film Wall Street . Dal 2000 la ribalta è infine tutta per i quants : «Solo quelli con un PhD in matematica sono or­mai in grado di maneggiare la complessità dei mercati finanziari». Su questo cambio di paradigma Wilmott ha iniziato a in­terrogarsi sin dai tempi di Oxford, quando studiava ma­tematica e prese un dottorato in meccanica dei fluidi. Ed è diventata quasi un’ossessione compagna dei tanti interessi curiosi. Al college, prima di 'quantizzarsi', a­veva disegnato un modello che analizzava la velocità e l’efficienza di un rasoio a doppia lama. In seguito ha congegnato turbine per il produttore di jet Rolls Royce, fondato società, fatto l’editore, tenuto corsi e conferen­ze sulla finanza quantitativa. Ma Paul Wilmott non è mai andato a lavorare per una banca.

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