lunedì 8 luglio 2013
COMMENTA E CONDIVIDI
Fuori dall’isola non se ne parla molto, ma la storia dell’Heroon di Monte Prama, venuto alla luce quasi quarant’anni fa nella penisola di Sinis (nella zona di Cabras, nell’oristanese),è quella di uno dei ritrovamenti più importanti dell’archeologia sarda e, forse, del Mediterraneo occidentale nel I millennio a.C. Dopo gli scavi – dalla metà alla fine degli anni ’70 dell’ultimo secolo – non poche, a livello locale, sono state le ipotesi avanzate sul significato di questo monumentale santuario, sulla funzione dei «Giganti», le statue ritrovate a pezzi presso lastre tombali sul sito. Ma è soprattutto grazie alla ricomposizione di questi colossi – un lavoro concluso verso la fine dell’anno scorso dal Laboratorio della Soprintendenza di Li Punti (Sassari), con un migliaio di «riattacchi» risolutivi su oltre cinquemila pezzi – che si percepisce l’importanza di questo scoperta. Statue di pietra alte più di due metri: pugilatori dalla mano guantata forse attori in giochi sacri in onore dei defunti, arcieri con le faretre sul dorso, guerrieri con l’elmo sul capo, profili potenti che insieme a modelli di nuraghe e betili, segnano con forza il territorio di quest’area funeraria a scopo cultuale. Ostentando, innanzitutto, i valori di una comunità aristocratica del VII secolo a.C. (730-670 a.C.): le virtù militari e la pietas religiosa, anelli di collegamento tra i morti "eroizzati" e le comunità familiari di origine. Insomma un quadro – dal quale ripartire per nuove ipotesi – che sin da ora arricchisce la conoscenza storica della Sardegna nell’epilogo della civiltà nuragica, quando l’isola da tempo era frequentata da greci, fenici e altri popoli del Levante, tale da far ripensare le stesse vicende dell’età del Ferro. Un quadro ora documentato dal libro «Giganti di pietra. Monte Prama. L’Heroon che cambia la storia della Sardegna e del Mediterraneo» (Editrice Fabula, pp. 278, euro 38, fotografie di Massimo Migoni e disegni ricostruttivi di Panaiotis Kruklifdis). Un’opera scritta dagli studiosi che hanno partecipato agli scavi – Alessandro Bedini, Carlo Tronchetti, Giovanni Ugas, Raimondo Zucca – a indicare proposte attendibili per la ricostruzione dell’Heroon e una restituzione della statuaria degli eroi sulla base dei reperti recuperati. A parecchi anni dal primo rinvenimento – nel marzo 1974, ad opera di un contadino che arando colpì con il vomere una statua con tutto quel che seguì sino al ritrovamento (una volta coinvolti i più famosi archeologi sardi dell’epoca, Giovanni Lilliu e Enrico Atzeni) – di una trentina di statue, molti problemi restano. E certamente altri segreti custodiscono queste sculture dalle anomale sembianze umane, «magiche presenze» con i loro cerchi concentrici al posto degli occhi, le fessure al posto della bocca, le pettinature a trecce cadenti sul petto coperto da corazza o le vesti orientalizzanti.
Tuttavia si può ripartire da una base abbastanza condivisa dalla comunità scientifica che ha apportato più d’una novità: una datazione attendibile dell’Heroon, collocata negli ultimi decenni dell’VIII secolo a.C. e una sua ricostruzione che, scartata la possibilità di un vicino edificio templare al quale riferire le statue distrutte e rovesciate sulla necropoli, va a favore di una stretta relazione fra le tombe e le statue, disposte appunto su ogni sepoltura. Nel volume citato la prima è ben spiegata, la seconda è descritta da un disegno analitico che segue l’introduzione; a corredo si pubblica la pianta completa degli scavi, ad oggi inedita. Non solo: i saggi raccolti, offrendoci dettagli rilevanti, ci presentano i sardi di cultura nuragica capaci – al pari di greci, fenici, etruschi, italici... – di declinare le loro tradizioni con grande autonomia in una trama unitaria. Zucca, mettendo in luce la densità di nuraghi e villaggi nell’area del Sinis, nonché i contatti favoriti dal porto di Tharros fin dall’età protostorica, spiega le premesse, quanto a condizioni materiali e di conoscenza, per la costruzione del santuario.Tronchetti, analizzando la società dell’età del Ferro, individua nell’ascesa di élite aristocratiche il contesto nel quale l’Heroon fu costruito con un uso di risorse finalizzato a palesare nelle sculture i già ricordati valori elaborati da questi gruppi, interessati anche a celebrare gli antenati loro protettori. Ugas indaga le relazioni di queste aristocrazie committenti, colte, pronte a recepire canoni orientalizzanti ma dentro gli scenari del posto, in una «monumentalizzazione della memoria».
Infine Bedini individua l’origine dei flussi culturali arrivati in Sardegna dal Vicino Oriente per poi sostare sulla reinterpretazione locale dei modelli giunti da fuori. Certo anche in queste pagine si nota il persistere di alcune divergenze tra gli stessi studiosi: Ugas non concorda con Bedini e Tronchetti e non solo retrodata la costruzione dell’Heroon spingendosi attorno al Mille, ma indica pure quella della sua distruzione, non oltre vent’anni dopo (ma qui tutte le ipotesi restano aperte). In ogni caso si tratta di un primo interessante bilancio e di un buon punto per ripartire. Del resto, guardando a conseguenze di diverso genere, altre divisioni non mancano neppure sulla destinazione finale di questo tesoro. In un recente convegno si è detto che i Giganti, ultimati definitivamente i restauri, torneranno nel Sinis in un museo; altre intese riferiscono una ripartizione delle statue fra il Museo archeologico di Cagliari (destinatario di almeno un esemplare per ogni tipologia scultorea), Cabras e Li Punti dove si trovano adesso; e c’è chi vede le sculture in continuo movimento come le nuove ambasciatrici della regione nei grandi eventi. Un dibattito dove sono forti le voci di chi vuole evitare dispersioni optando per il ritorno degli «eroi» nei loro luoghi e ripone nuove speranze su altre, attese, indagini di scavo. Queste (finanziamenti regionali permettendo) risolverebbero querelles mai spente. «Mi sono chiesto quanti Paesi al mondo possiedono valori così grandi e si permettono il lusso di non valorizzarli», diceva giorni fa il rettore dell’Università di Cagliari Giovanni Melis: poi la dura constatazione: «Abbiamo un patrimonio sommerso e preferiamo disputarcelo invece che valorizzarlo».
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: