martedì 9 maggio 2017
Dalle pagine della scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie l’invito a una riflessione sulla complessa e irrisolta questione della parità di genere Una lezione di coraggio e orgoglio
Quando l'Africa insegna la forza di essere donna
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Talvolta un punto di vista distante ci aiuta a considerare qualcosa sotto una nuova luce, più nitida, tersa. D’un tratto abbiamo l’impressione di comprendere una questione sino ad allora considerata in modo opaco, o nodoso, perché qualcuno mettendola a fuoco con rigore, semplicità, chiarezza, ha saputo mostrarcene in forma inedita il nucleo. Così mi è accaduto di recente riguardo alla (eterna, ed eternamente complicata) questione della parità tra i generi. Per aver letto pagine di una scrittrice nigeriana, Chimamanda Ngozi Adichie, mi sono sentita piovere sulla testa un felice zampillare di nuovi pensieri. Così tonificanti, nella loro chiarezza. Oggi ha quarant’anni, Chimamanda. Proviene dalla cultura Igbo, uno dei ceppi etnici principali del continente africano (riunisce trenta milioni di persone). Aveva già pubblicato due romanzi, quando nel 2009 la sua popolarità ha conosciuto un improvviso, clamoroso picco. L’occasione è stata un discorso, propagato in tutto il mondo da TedXEuston, piattaforma internazionale di divulgazione delle più innovative idee provenienti dall’Africa e dalla sua diaspora. Dovremmo tutti essere femministi, il titolo. «Mi ritengo una femminista felice», uno dei passaggi chiave del testo (in risposta alle insidie di un collega giornalista, che aveva definito «infelici e senza marito» tutte le donne femministe). Parole limpide come un cielo sgombro di nuvole. La cantante Beyoncé le ha usate per una sua hit, ed ecco il picco di notorietà della giovane Chimamanda aumentare ancora, esponenziale.


Lei comunque resta lei: sorridente, serena, incrollabile nel rimanere ancorata alle proprie convinzioni. Oltre alla virtù della chiarezza, Chimamanda Ngozi Adichie possiede quella (speculare) di mettersi personalmente in gioco. Già nell’intonazione del suo scrivere è integra, leale. Può sembrare scontato, quel che dice, ma non lo è affatto. «Sto cercando di disimparare molte delle lezioni di genere interiorizzate quando ero piccola, sebbene mi senta talvolta ancora molto vulnerabile di fronte a tal genere di aspettative». Per lei, cresciuta in un mondo pensato, formulato, programmato dagli uomini, articolare dichiarazioni di simile tenore è vittoria, liberazione, e di più: provocazione pura, entusiasta e irenica insieme. Il genere sessuale come riferimento identitario, Chimamanda spiega in un altro libro da poco uscito in Italia ( Cara Igeawele. Quindici consigli per crescere una bambina femminista, Einaudi), altro non è che una categoria della quale liberarsi, questione che neppure dovrebbe più venire posta. Una vera emancipazione non necessita di toni sbandierati e gridati, né viceversa soffocati o goffamente timidi.


Se l’autenticità delle parole di Chimamanda Ngozi Adichie colpisce nel segno, è perché vi si ibridano modestia e sicurezza di sé. Inoffensivo quanto definitivo, il suo puntare il dito sulla desuetudine dell’utilizzo di certi stereotipi. «Ho scelto di non dovermi più scusare per il mio essere donna. E voglio essere rispettata in tutta la mia femminilità, perché lo merito», dichiara alla giovane madre per la quale ha composto il suo prontuario. Diventare una persona “completa”. Capace di ascoltarsi, rispettarsi, di usare massima gentilezza verso quel che di più aggraziato e delicato e potente essa custodisce in sé, inscritto nel suo futuro cammino. Si può essere in occidente donne coraggiose, indipendenti, riconosciute nel lavoro, ma anche accolte e amate nella propria essenza delicata e vulnerabile? La domanda, per quanto trita o ingenua possa risuonare, a oggi resta inevasa. Ne sono un principio di risposta queste parole che arrivano dalla Nigeria. Non consolatorie, ma invece fresche, perché «non messe a tacere dalla paura, o dall’amore, o dall’abitudine».

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