mercoledì 5 febbraio 2020
Alla Braidense un percorso permette di apprezzare la bellezza e la complessità degli incunaboli, i volumi che nella seconda metà del XV secolo segnano il passaggio dal manoscritto alla tipografia
Una agina del “Decretum Gratiani” di Girolamo da Cremona stampato a Venezia da Nicolaus Jenson nel 1477

Una agina del “Decretum Gratiani” di Girolamo da Cremona stampato a Venezia da Nicolaus Jenson nel 1477

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Jorge Luis Borges amava molto gli autori minori e addirittura minimi di ogni letteratura, tanto da dedicare una poesia all’anonimo dell’Antologia Palatina del quale, diceva, nulla sappiamo, se non che una notte udì cantare l’usignolo. Avesse visitato la mostra “Biblioteche riscoperte. Ab artis inventae origine”, inaugurata ieri presso la Biblioteca nazionale Braidense di Milano, Borges di sicuro si sarebbe appassionato al raro esemplare del Libellus de carcere di Piattino Piatti, poeta e uomo d’armi attivo alla corte degli Sforza, definito «di modesta fama» perfino dalla didascalia che, probabilmente, il grande scrittore argentino avrebbe chiesto gli si leggesse a voce alta. Borges era cieco, certo, ma questo non gli avrebbe impedito di entusiasmarsi per la magnifica scelta di incunaboli che compone il percorso allestito dal curatore Fabrizio Fossati. “Incunabolo” è il termine convenzionalmente adoperato per indicare i libri a stampa realizzati nella seconda metà del XV secolo, quando la sancta ars elogiata da Niccolò Cusano era ancora in incunabulis, ossia “in fasce”: il Libellus di Piatti, nella fattispecie, fu prodotto a Milano attorno al 1485, una trentina d’anni dopo che Johannes Gutenberg aveva portato a termine l’impresa della famosa Bibbia a 42 linee, con la quale la storia della stampa a caratteri mobili ha ufficialmente inizio.

In Italia la tecnologia dei caratteri mobili arrivò nel decennio successivo per iniziativa di altri due tipografi tedeschi, Conrad Sweynheym e Arnold Pannartz, che il 29 ottobre 1465 licenziarono dal loro laboratorio di Subiaco l’edizione delle opere di Lattanzio che il visitatore trova ora esposta in Braidense: si tratta del primo libro stampato nel nostro Paese che riporti l’indicazione precisa della data. A colpo d’occhio, ci sono casi in cui risulta difficile cogliere la differenza tra gli incunaboli più antichi e i manoscritti medievali ai quali la nuova produzione apertamente si ispira. Si pensi, per esempio, alla consuetudine di lasciare uno spazio bianco nella pagina per permettere la successiva introduzione di capilettera miniati a mano o addirittura all’uso di una pergamena opportunamente trattata al posto della carta che, pur costosa, rappresenta fin dal principio il supporto d’elezione per i testi a stampa.

Sottigliezze che soltanto i bibliofili sono in grado di apprezzare? In parte sì, ma sarebbe un errore trascurare il significato culturale di una tecnica che, sviluppatasi in un’epoca di transizione, può rivelare analogie straordinariamente istruttive per chi, come noi, è chiamato a misurarsi con ulteriori e non meno impegnative discontinuità nella trasmissione del sapere. Si studiano i primordi della stampa per comprendere meglio il passato, insomma, ma anche per chiarirsi le idee sul presente. Anche per questo va salutata con gratitudine l’impresa da cui la mostra attuale deriva, vale a dire l’inserimento degli oltre 2.300 incunaboli custoditi alla Braidense nel database internazionale Mei, acronimo che sta per Material Evidence in Incunabula (data.cerl.org/mei). A effettuare la catalogazione digitale è stato lo stesso Fossati, all’interno di un progetto sostenuto dalla Regione Lombardia in collaborazione con il Centro di ricerca europeo libro editoria biblioteca (Creleb) dell’Università Cattolica di Milano. Come osserva il direttore del Centro, lo storico Edoardo Barbieri, il patrimonio complessivo degli incunaboli lombardi ammonta a circa dodicimila volumi, novemila dei quali già censiti nel Mei. La dotazione più consistente è senza dubbio quella della Braidense, al punto che una scelta degli esemplari conservati presso la biblioteca milanese già permette di orientarsi in una vicenda tanto affascinante quanto complessa. Lo conferma, appunto, la mostra in corso, nella quale figurano alcuni oggetti del Museo della Stampa di Lodi.

Come sempre accade nella storia del libro, anche l’incunabolo va inserito nel più ampio contesto delle culture materiali. I libri sono oggetti e, nello stesso tempo, sono qualcosa di più, sono il risultato dell’intreccio fra conoscenze teoriche e pratiche artigianali. Il modello di partenza, come ricordato, è costituito dal codice medievale, del quale l’incunabolo tende a riprodurre le fattezze nella prospettiva di quella che, molto più tardi, Walter Benjamin avrebbe definito «riproducibilità tecnica». Si preserva lo spazio per le miniature, dunque, e talvolta si fa uso della pergamena, con risultati di eccezionale bellezza, come lo strepitoso Breviarium Toletanum che si incontra in mostra. La nuova tecnologia, però, permette anche interventi d’altro tipo, primo fra tutti l’inserimento di illustrazioni xilografiche. Ancor prima di arrivare al capolavoro della tipografia veneziana di Aldo Manuzio, la leggendaria Hypnerotomachia Poliphili del 1499, colpiscono la ricercatezza delle illustrazioni che accompagnano la Peregrinatio in Terram Sanctam di Bernhard von Breydenbach, stampata a Magonza nel 1486, e il dettaglio delle mappe di cui è ricca la Geographia di Francesco Berlinghieri, realizzata a Firenze non più tardi del 1482.

Appartengono alla storia dell’incunabolo alcuni degli elementi fondamentali del cosiddetto apparato paratestuale, dal frontespizio al colophon (la nota che riassume le informazioni essenziali di ciascuna edizione). Innovazioni, queste, che non escludono il ricorso alle note di possesso né ai simboli e monogrammi impressi sulla rilegature oppure direttamente sulle pagine dei libri: grazie a queste indicazioni è oggi possibile ricostruire le vicende dei singoli volumi, che nel caso della Braidense provengono spesso dalle collezioni degli istituti religiosi lombardi. Fra le numerose rarità in mostra, andranno segnalate almeno le due diverse edizioni del Decretum Gratiani risalenti rispettivamente al 1474 e al 1477: sulla prima si sofferma in sede di catalogo Chiara Ponchia con una nota che permette di intuire quanto articolata possa essere la rete di riferimenti presenti in un solo libro, a volte in un’unica immagine.

"Biblioteche ritrovate. Ab artis inventae origine", Sala Maria Teresa della Biblioteca nazionale Braidense di Milano (via Brera 28), fino al 28 marzo. Dal lunedì al sabato, 9-13.30, ingresso libero. Due incontri con gli esperti, il 25 febbraio e il 10 marzo alle 16.30. Info: www.braidense.it

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