giovedì 28 maggio 2020
Ministro della Giustizia del fratello, è stato autentico pioniere nel contrasto alla criminalità organizzata, con una moderna analisi del fenomeno e la centralità dei pentiti
Bob Kennedy

Bob Kennedy - Archivio

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«Nel nostro paese il crimine organizzato è diventato un business enorme, che varca e ignora le frontiere statuali. Esso sottrae milioni al benessere nazionale e infetta l’economia legale, i sindacati e persino lo sport. Tollerare e convivere con la malavita organizzata equivale alla resa per una democrazia». No, non è una frase di Giovanni Falcone, del quale abbiamo ricordato sabato scorso il ventottesimo anniversario della morte. Né di Paolo Borsellino o di un altro simbolo dell’antimafia. Anche se davvero lo è stato. A pronunciare queste parole il lontanissimo 6 maggio 1961 fu, infatti, Robert Kennedy, fratello di John Fitzgerald Kennedy, il grande presidente Usa ucciso a Dallas il 23 novembre 1963, e anche lui assassinato il 6 giugno 1968. Bob Kennedy dopo l’elezione del fratello alla Casa Bianca nel 1960, divenne Attorney general, equivalente del Ministro della Giustizia italiano. E mise al centro del suo programma e della sua attività la lotta al crimine organizzato. Con profonda convinzione che questa era la vera battaglia da combattere. Più di quella, allora dominante, al comunismo. Una battaglia che riguardava tutti.

«Il 90 per cento dei principali boss – disse ancora nel primo discorso ufficiale dopo l’investitura – sarebbe fuori gioco entro la fine di quest’anno se il cittadino ordinario, il politico, l’imprenditore, il sindacalista e l’autorità pubblica facessero sentire la propria voce e rifiutassero la corruzione». Aggiungendo che «il gangster più pericoloso non ha la pistola in mano ma il pubblico ufficiale nella propria tasca». Parole di quasi sessanta anni fa, ma attualissime. Così come le idee, le strategie, che RFK mise in campo. Anticipando quello che venti dopo venne fatto in Italia. Ce lo racconta il giovane giornalista Gabriele Santoro nel libro La scoperta di Cosa Nostra. La svolta di Valachi, i Kennedy e il primo pool antimafia (Chiarelettere, pagine XIII–256, euro 18,00). Un libro che ci voleva davvero. Soprattutto adesso. Per capire il presente delle mafie, e del contrasto alle mafie, leggendone bene il passato. Di là e di qua dell’Atlantico. Attraverso la storia dei boss, di chi li contrastava, di chi scelse di collaborare. E nel titolo ci sono già tutti, compreso quel Joe Valachi, gregario del boss Vito Genovese, primo “collaboratore di giustizia”, l’uomo che per primo pronunciò con gli inquirenti americani il nome “Cosa nostra” (anche se sui giornali italiani di allora venne storpiato in “casa nostra”). Difeso, tutelato, valorizzato da Bob Kennedy.

Un Tommaso Buscetta di venti anni prima, una scelta per salvarsi e per vendicarsi, come inizialmente fece “don Masino” quando cominciò a parlare con Falcone. Non l’unico parallelo, non l’unico collegamento che troviamo nel libro. Che racconta dei primi magistrati siciliani che capirono subito l’importanza di quello che stava emergendo oltreoceano, come disvelamento del potere mafioso e come strategia di contrasto. Santoro ricorda Aldo Vigneri, Cesare Terranova e Rocco Chinnici, questi ultimi due vittime della violenza dei clan. E poi lo stesso Falcone. Fino ai nostri giorni. E così il racconto di Robert Kennedy, e della sua “squadra antimafia”, di u- na mafia vera, non quella “mitica” di alcuni film americani, diventa occasione per riflettere sull’oggi. Come scrivono il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri e lo storico delle mafie, Antonio Nicaso, nella prefazione.

«“Il nemico è dentro di noi, ovvero dentro la nostra società” ripeteva RFK. Non viene da fuori, come si è voluto far credere. Un ragionamento che anche in Italia si fatica a comprendere. Pochi hanno il coraggio di ammettere che senza il riconoscimento politico, sociale ed economico di una parte della classe dirigente dei territori in cui si sono insediate, le mafie avrebbero fatto fatica a sopravvivere, sia al Sud che al Nord». Ed è quello che affermava Falcone, con le parole che l’autore ha scelto per chiudere il libro. «La tendenza nel mondo occidentale, europeo in particolare, è quella di esorcizzare il male proiettandolo su etnie e su comportamenti che ci appaiono diversi dai nostri. Ma se vogliamo combattere efficacemente la mafia, non dobbiamo trasformarla in un mostro né pensare che sia una piovra. Dobbiamo riconoscere che ci rassomiglia».

Ventiquattro anni dopo Bob Kennedy, anche Falcone pagò con la vita l’efficacia di questa analisi. RFK aveva intuito la necessità di una norma speciale (l’associazione a delinquere di tipo mafioso, il nostro 416bis), di tutelare chi sceglieva di collaborare, di coordinare le forze dell’ordine e i magistrati che combattevano il crimine organizzato (il “pool” palermitano e poi la Procura nazionale antimafia, hanno i precursori sull’altra sponda dell’Atlantico), l’importanza delle intercettazioni come strumento di indagine. Sembra di leggere davvero storie di “casa nostra”. «Dai discorsi e dagli atti emergono senza mediazioni la visione e l’attualità del suo metodo di contrasto alla criminalità organizzata, e di ciò che definiamo antimafia: una questione giudiziaria, economica, politica, sociale e culturale; un aspetto dell’impegno per il rinnovamento democratico della società», scrive l’autore. Valachi, così come più tardi Buscetta, non era particolarmente ottimista. «A che cosa serve ciò che stiamo facendo? Nessuno ci darà retta. Nessuno crederà e reagirà. Questa Cosa nostra è come un secondo governo che sta diventando troppo potente e, una volta che si sarà radicato, diventerà impossibile da sconfiggere ». Parole dure, ma Bob Kennedy, pur cosciente che «il nemico è tra noi», e forse proprio per questo, era spinto da una chiara e forte convinzione. «Non possiamo cedere alla tentazione di delegare a pochi la missione della lotta alla mafia o restare indifferenti a ciò che in una società libera è affare di tutti. Io ho raccolto la sfida e prometto il massimo dello sforzo». Lo fece, purtroppo, per pochi anni ma lasciando un segno che non può essere dimenticato. Per questo davvero, come invitano Gratteri e Nicaso, «il saggio di Santoro è uno di quei libri che vanno letti e divulgati».

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