venerdì 27 maggio 2022
Una riflessione dell'artista Raul Gabriel sui velleitarismi di un'arte impegnata: «L’arte si pone fuori da ogni logica di baratto, anche morale. Se l'arte cambia il mondo, lo fa senza volerlo»
Frammento di testa da una statua colossale di epoca greca. New York, Metropolitan Museum of Art

Frammento di testa da una statua colossale di epoca greca. New York, Metropolitan Museum of Art - Levi Meir / Unsplash

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Una bolla di espansione voluttuaria e vitale, imprevedibile e privilegiata, trappola sempre inadeguata per una preda effimera, tanto presente quanto elusiva come l’energia fisica ed esistenziale che ribolle incessantemente sotto la crosta delle convenzioni dal momento in cui veniamo al mondo. Il suo unico scopo sarebbe ingabbiare la vittima dentro una concretezza formale che la confini e la renda incontrabile. Naturalmente non ci riesce mai del tutto e questo è parte della seduzione che si rinnova senza sosta. È l’arte. È entrata nella mia esperienza senza che l’avessi invitata, ed è stata come un treno in corsa. Per definirla non trovo ancora oggi un termine migliore di irresistible force, un vortice che pretende dedizione, fiducia e non restituisce alcuna certezza.

L’affioramento formale dell’energia poetica è un nucleo scarno che rifiuta ogni vicinanza con decorazione, didascalia e utilità. L’arte si pone fuori da ogni logica di baratto, compreso il baratto morale. In questo risiede il suo potenziale di forza e novità capaci di generare stupore e intuire visioni a venire molto prima che servano a qualcosa.

Invece, complice un innato desiderio di controllo e incapacità di rischio, siamo portati a elevare la funzione a nume tutelare del reale, arte e fede comprese. Senza la funzione non siamo in grado di concepire l’esistenza e neanche l’arte. L’arte deve servire a qualcosa.

È curioso perché nasciamo liberi dall’assolvere qualsiasi funzione, nasciamo in un fiotto di sangue, acqua e gratuità senza etichetta. Non nasciamo perché “serviamo a qualcosa”, nasciamo perché è talmente forte la spinta generosa dell’esistenza che riesce a comprendere anche noi. Ma appena siamo scossi dal primo sussulto provvidenziale che ci regala un accesso illimitato all’ossigeno ce ne dimentichiamo. Non siamo più in grado di restituire alcuna fiducia e gratuità, intenti ad addomesticare ogni azione come se fossimo realmente in grado di controllarla. Così facciamo con l’arte, così con la fede, così con tutto.

C’è sempre un prima e un dopo; succede per ogni fenomeno della realtà che collochiamo nella progressione temporale senza la quale non sapremmo immaginare l’esistenza. Se devo aggiustare un rubinetto o stendere l’intonaco, redarre il bugiardino di un medicinale o potare una pianta, i due momenti si confondono dentro la dimensione sovrana dell’utilità, della funzione, cui assolvono in modo direttamente proporzionale alle abilità messe loro a disposizione. La funzionalità di queste operazioni può essere distribuita secondo percentuali differenti, con margini relativi di libertà differenti, ma rimane il vincolo essenziale della loro ragion d’essere. Per semplificare potremmo definirle attività pratiche che nascono e si concludono dentro l’alveo di utilità costitutivo del loro farsi. In questa categoria possono essere incluse anche le attività cosiddette di concetto, quando chi le esercita vi applica la forma mentis dell’elettricista o del muratore.

La poesia è diversa. La relazione che ha l’opera con il prima e il dopo è del tutto singolare. La differenza essenziale è questa: il prima è privo di funzione. Catarsi da ogni aspettativa che non sia il flusso tra energia e forma, l’unica che può permettere, in alcuni casi, l’accesso al nuovo, all’imprevedibile e inaspettato. L’arte e la sua dimensione poetica sono i paria del reale, sono pura inutilità (alla funzione) che diventa forma, presenza, simbolo.

Una volta che questa forma diviene riscontrabile grazie a una alchimia del fare dalla formula inaccessibile, inizia il dopo, le cui conseguenze sono però imprevedibili, non possono essere addomesticate a priori. Diversamente l’arte si sposta nella categoria cui appartiene l’avvitare una lampadina, allineandosi alla natura di un elettrodomestico, magari supertecnologico, con il suo libretto di istruzioni.

Il tesoro in dote alla dimensione poetica non identifica alcun precetto morale predefinito, alcuna etica stabilita. Nessuna etica può affermare “l’arte è con noi” , parafrasando le derive storiche dei vari credo interpretati a proprio uso e consumo. L’arte, come la fede, è azzardo adamantino e tagliente, espressione di vita, allergica ad ogni etichetta prestampata.

Se l’arte, quella che nasce come omaggio alla forza vitale che la genera, ha una qualche influenza sulle traversie storiche umane, questa non si cura del risultato immediato ma della presa di coscienza. Può aiutarci, se siamo disposti a restituire con generosità la gratuità e fiducia che ci sono concesse, a comprendere quanto siamo vulnerabili, quanto il nostro contributo passeggero al mondo possa fare la differenza su di noi prima che sugli altri, quanto la nostra prima preoccupazione debba essere ciò che viviamo in prima persona, unico baluardo di identità e testimonianza possibile, unica giustificazione della eredità che abbiamo ricevuto, così, senza meritarlo, come servi inutili. Servi inutili cui è stata data la possibilità di creare un’arte tanto inutile da cambiare il mondo senza neanche volerlo.

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