giovedì 8 settembre 2022
Nello stato arabo dove a novembre si terranno i Mondiali è allarme “morti bianche”: 6.500 vittime nei cantieri dei nuovi stadi, il 58% dei decessi per problemi cardiaci
Emiri del Qatar allo stadio mentre assistono a un incontro di calcio

Emiri del Qatar allo stadio mentre assistono a un incontro di calcio

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Il 12 dicembre 2010 i vertici del calcio internazionale si rallegrarono della possibilità di far disputare la Coppa del Mondo in uno Stato delle dimensioni dell’Abruzzo. Subito dopo l’assegnazione del Mondiale 2022 al Qatar, l’allora presidente della Fifa, Joseph Blatter, si definì un “presidente felice” poiché la più importante rassegna calcistica avrebbe raggiunto “nuovi territori”. Sono trascorsi quasi dodici anni da quel giorno, da quella controversa votazione avvenuta a valle di procedure e vicissitudini ispirate quantomeno dalla scarsa trasparenza. E mancano ormai pochi mesi al calcio d’inizio del torneo storicamente più atteso, ma forse può valere la pena riavvolgere il nastro su quanto è accaduto in questi dodici anni: praticamente da zero in Qatar sono stati tirati su i nuovi avveniristici stadi, si è cercato di costruire nel Paese una cultura sportiva e di fare in modo che agli occhi degli appassionati di tutto il mondo si potesse associare all’immagine del Qatar quella dei volti conosciuti e rassicuranti dei più grandi campioni del pallone. Un concetto che si può riassumere con la parola sportwashing: lo sport per mostrarsi migliori, un biglietto da visita accattivante potendo disporre delle risorse infinite garantite dal gas naturale liquefatto. Un po’ anche in risposta agli investimenti copiosi dei vicini degli Emirati Arabi Uniti, sbarcati a in Inghilterra nel 2008 con l’acquisto del Manchester City, nel 2011 il Qatar Sports Investments - braccio operativo per l’industria sportiva del fondo sovrano qatariota - rileva il Paris Saint-Germain. E nel giro di poco tempo lo rende una potenza calcistica in grado di attrarre i migliori giocatori del mondo, ma anche una potenza all’interno delle istituzioni sportive stabilendo ottimi rapporti e riuscendo a evitare sanzioni pesanti in seguito a ripetute violazioni del Fair Play finanziario. Degli Stati sono diventati proprietari di alcune squadre di calcio, con lo scopo di farne dei Dream Team.

Una volta assegnato il Mondiale in Qatar, la Fifa ha accettato l’idea dello spostamento della competizione in inverno per via delle temperature che a giugno e luglio renderebbero piuttosto complesso il regolare svolgimento del torneo. Un fatto più unico che raro. Ma perché il Paese si dotasse di infrastrutture adeguate, il governo del calcio mondiale ha dovuto accettare anche l’idea del totale assoggettamento dei lavoratori in Qatar al datore di lavoro. Vale a dire il sistema della kafala, la cosiddetta sponsorizzazione, che impedisce al dipendente di lasciare il Paese o di cambiare lavoro senza il necessario permesso. Il patrocinio da parte del datore è dunque fondamentale nell’applicazione delle condizioni contrattuali per l’impiego dei lavoratori migranti, dal momento che uno straniero necessita di uno sponsor (kafeel) per superare le frontiere. Non era il governo ad assegnargli uno status giuridico, bensì il datore stesso, responsabile di tutte le condizioni formali, dal permesso di soggiorno alla cessazione del rapporto, dal cambio di sponsor a qualsiasi altra autorizzazione. A fronte di molteplici pressioni internazionali, iniziate proprio con l’assegnazione del Mondiale, il Qatar è intervenuto pesantemente sul sistema della kafala nel settembre del 2020, dopo oltre un decennio, e pochi operai hanno potuto usufruire del nuovo regime, approvato a soli due anni dal fischio d’inizio iridato. I lavoratori migranti, giunti in prevalenza dall’Asia meridionale (Nepal, India, Bangladesh e Filippine) ma anche dall’Africa, soprattutto da Ghana e Kenya, si sono a lungo ritrovati in un vicolo cieco che prevedeva un’espressa autorizzazione da parte del datore per cambiare lavoro o per abbandonare il Qatar. In questi dodici anni c’è chi ha provato a contare quanti lavoratori abbiano perso la vita nella costruzione degli stadi e di altre infrastrutture in Qatar. Un numero esatto è impossibile stabilirlo. C’ha provato il Guardian con una meritoria inchiesta, così come Amnesty e Human Rights Watch, e il numero mette i brividi: almeno 6.500 vite sacrificate nei cantieri.

Una ricerca pubblicata sul Cardiology Journal dopo un lavoro congiunto tra cardiologi e climatologi guidati dal dottor Dan Atar, professore di cardiologia e capo della ricerca presso l’Ospedale universitario di Oslo, ha acceso un faro sui tanti, troppi decessi degli operai, spesso catalogati come mere “cause naturali” per nascondere altre verità. In base ai numeri e ai documenti a disposizione, i ricercatori hanno rilevato che nei mesi più freddi circa il 22% dei decessi su base annua è stato attribuito dalle autorità ad attacchi di cuore, arresto cardiaco o altre cause cardiache. Nei mesi estivi questa percentuale è salita al 58%. «I giovani uomini hanno genericamente un’incidenza molto bassa di attacchi di cuore», ha analizzato Atar, «ma centinaia di loro muoiono ogni anno in Qatar per cause cardiovascolari. Da cardiologo non posso che pensare che queste morti siano causate da un micidiale colpo di calore perché il corpo umano non può sopportare certi stress termici e il decesso può avvenire anche nel sonno all’improvviso. I lavoratori vengono reclutati nei loro Paesi di origine sulla base del loro stato di salute, arrivano nel Golfo idonei per lavorare, a maggior ragione se parliamo di giovani d’età compresa tra i 25 e i 35 anni. Come mai allora pagano un dazio così pesante?». Alla domanda di Atar è difficile rispondere: le autopsie sono vietate per legge, se non per «determinare se la morte sia stata causata da un atto criminale, se il defunto abbia sofferto di malattia prima della morte o per scopi puramente educativi».

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