venerdì 24 marzo 2017
Donne, per lo più povere giordane e rifugiate siriane, praticano arti marziali anche come antidoto alle continue violenze
Lina Khalifeh e le ragazze della palestra SheFighter di Amman - Simona Ghizzoni

Lina Khalifeh e le ragazze della palestra SheFighter di Amman - Simona Ghizzoni

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Guantoni da boxe, sudore, flessioni, sguardi vigili. Calci da riprovare all’infinito per conquistare l’altezza e l’intensità giuste, dove la potenza non sbilanci il corpo. Gesti asciutti e calibrati per disarmare l’aggressore immaginario che nasconde un coltello. Pugni da assestare alla perfezione, perché quando capiterà davvero, magari lungo una strada buia, il panico dovrà trasformarsi all’istante in tecnica e sangue freddo. Siamo in una palestra di Roma e queste trenta donne non sono concentrate su una semplice lezione di combattimento. Ad arringarle, autorevole e scattante, è una trentaduenne che da Amman, in Giordania, è venuta in Italia a mostrare l’idea tanto semplice quanto visionaria che l’ha resa un modello di emancipazione femminile. Lei si chiama Lina Khalifeh ed è cintura nera nell’arte marziale coreana del taekwondo: «La pratico fin da bambina», ci dice in una pausa dagli allenamenti, «è uno sport molto popolare in Giordania, ma solo fra gli uomini. Un nostro cugino gestiva una palestra: è stato un caso che i miei genitori mi ci abbiano portata per tenere a freno la mia vivacità».


Dopo gli studi tra Stati Uniti, Francia e Giordania, tuttavia, il suo destino era in un ufficio dell’azienda di famiglia. Finché un giorno di sette anni fa Lina ha incrociato nei corridoi dell’università, per l’ennesima volta, gli occhi pesti e gli zigomi tumefatti dell’amica Sarah, vessata da un fratello manesco. «Le ripetevo: “Metti fine a tutto questo! Gli uomini ci considerano creature sottomesse, vittime per definizione, ma basta un gesto per indurli a rispettarci”. Così cominciai ad allenarla nella mia cantina. I miei genitori storcevano il naso ma pensavano che quella mia idea folle sarebbe svanita in fretta. Invece, nel 2012, aprii la mia palestra». Il centro She-Fighter, fondato da Lina Khalifeh nel quartiere Khalda ad Amman, è il primo in Medio Oriente a offrire corsi di autodifesa femminile. L’ingresso è riservato alle donne, e non solo perché possano abbigliarsi come pare a loro, senza veli islamici e pudori sociali. «SheFighter è un luogo dove condividere la propria storia, confidare le umiliazioni subite, lavorare sulle nostre debolezze e i punti di forza. La mia tecnica combina il taekwondo, un’arte straordinaria che insegna disciplina e rispetto per sé e per gli altri, con boxe, kick boxing e kung fu, ed è soprattutto un percorso di irrobustimento interiore e di autostima.


Quando si sentono forti e stabili fisicamente, capaci di reagire alle aggressioni, le nostre donne danno un calcio al vittimismo, sono in grado di prendere decisioni importanti per la loro vita, come denunciare un marito violento, e di rivendicare un ruolo nella collettività». Oggi SheFighter allena centoventi donne al mese nella sola Amman, e migliaia nel Paese. «Teniamo anche classi gratuite nei quartieri più poveri e con le rifugiate siriane» aggiunge Lina, «perché il nostro è innanzitutto un messaggio sociale». L’emancipazione femminile attraverso lo sport, affinché le donne imparino come contrastare la violenza, fuori e dentro casa: è questo il suo obiettivo, controcorrente e quasi temerario, nella società giordana che – per quanto avanti nella parità, se confrontata ad altri Paesi mediorientali – resta profondamente patriarcale.


Nel 2012 il sociologo Diab M. Al-Badayneh ha intervistato quasi duemila donne, e il 98 per cento ammette- va di aver patito almeno un episodio d’abuso. La ricerca suggeriva quanto i soprusi subiti plasmassero al ribasso la personalità femminile, rendendola passiva secondo le aspettative della società: il 93 per cento del campione, per esempio, riteneva che la moglie debba sempre obbedire al marito. Ecco perché, dentro i confini del suo Paese, il cammino di Lina Khalifeh resta in salita: «Il tema della violenza domestica è tabù» spiega, «se ne nega persino l’esistenza, e molti mi accusano d’insegnare alle donne a diventare violente. Un marito mi ha persino denunciata perché la moglie, dopo anni di maltrattamenti, ha finalmente reagito. Però in tribunale ho vinto io». Alla fine, a Lina interessa raccontare le vittorie delle sue allieve, e ne ha un catalogo sterminato. Come la giovane che ha sventato un tento stupro dentro un ascensore sferrando un calcio all’aggressore, inseguendolo per strada e facendolo arrestare.


O la ragazza che l’abuso sessuale l’aveva subito e, per la madre, portarla a SheFighter era l’ultima spiaggia per sottrarla alla catatonia: «Ce l’ha fatta», ricorda Lina, «ha ritrovato la fiducia in sé ed è diventata lei stessa allenatrice». Se la sua Giordania continua a guardarla come un’aliena («Il governo non ci ostacola ma ci ignora. Andiamo avanti con il sostegno di organizzazioni internazionali»), all’estero piovono riconoscimenti. Nel 2015, l’allora presidente americano Obama lodava il suo impegno. Da imprenditrice sociale ha vinto premi a Dubai e all’Onu di Ginevra. L’attrice Emma Watson l’ha chiamata per farsi allenare personalmente da lei. «Ora siamo pronte a esportare SheFighter in tutto il mondo», confida. «Ci siamo già riuscite in Turchia, in Vietnam, in Brasile, e presto anche in Italia grazie all’associazione “Un ponte per…”. Perché la violenza di genere non ha nazionalità».


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