giovedì 28 aprile 2016
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Echiarire? sperta nel restauro di manoscritti e opere d’arte su carta e pergamena, di casa in varie biblioteche e musei, docente da oltre quindici anni presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e, dal 2010, all’Università Ca’ Foscari di Venezia, presidente dell’Associazione italiana dei conservatori e restauratori degli Archivi e delle Biblioteche, Melania Zanetti è la restauratrice cui è stato affidato il manoscritto di sant’Ignazio. Ha avuto paura di fronte al restauro di una reliquia di straordinaria importanza? «La responsabilità non è piccola. In oltre vent’anni ho imparato però che sono necessarie umiltà e prudenza nelle valutazioni, ponendosi di fronte ad ogni opera come a un problema che non ha soluzioni univoche: l’opera stessa, se interrogata a proposito, fornisce risposte capaci di indirizzare e guidare l’intervento». Quali erano i quesiti chiave che il manoscritto doveva «Il primo in merito alla sua storia: quando, dove e chi lo ha scritto; dove e come, a partire dal secolo XVI è stato conservato; quando e come si è intervenuti con le riparazioni che ne hanno alterato la struttura peggiorandone la leggibilità. In altri termini, si tenta di tracciarne il vissuto. Cesare Brandi, grande teorico del restauro, affermò che si restaura soltanto la materia delle opere d’arte. Oltre a ricostruire il percorso del bene culturale, dunque, l’attenzione del restauratore deve concentrarsi sulle componenti materiali, nel nostro caso, carte e inchiostri. E qui intervengono le scienze della natura. Ecco allora l’intervento dei chimici dell’Università di Padova, Alfonso Zoleo e Maddalena Bronzato, i cui studi ci hanno fornito informazioni sullo stato di conservazione e sulla composizione». Ad esempio? «L’analisi di fluorescenza ai raggi X e di riflettanza: la prima per determinare la presenza di metalli pesanti nella carta e la seconda per caratterizzare puntualmente gli imbrunimenti dei fogli. A noi interessava soprattutto monitorare il ferro degli inchiostri e la sua diffusione sulle aree perimetrali della scrittura per valutare se i trattamenti cui il manoscritto veniva progressivamente sottoposto potevano determinarne la migrazione. Questo non si è verificato e abbiamo potuto procedere, sempre con la dovuta cautela». Parlava anche di prudenza… «La prudenza nel valutare, prima di qualsiasi azione sull’originale, le conseguenze che tale azione comporta, non solo in fase di esecuzione, ma soprattutto a lungo termine». I materiali e le tecniche cui si ricorre sono comunque tutte reversibili? «La reversibilità è un’espressione equivoca, esiste soltanto in teoria, ma nella pratica è inevitabilmente parziale: è fondamentale che i materiali di restauro siano ampiamente reversibili, ma non lo saranno mai al 100% e, soprattutto, quello che non può essere reversibile è lo stato dell’opera. Ammesso che dal manufatto restaurato si riescano a rimuovere tutti i materiali e i prodotti utilizzati per l’intervento, non si riporterà comunque l’opera allo stato precedente, perché per definizione l’intervento di restauro ne modifica la materia, più o meno secondo il suo grado di invasività. L’insegnamento di un altro grande maestro della chimica nell’arte, Giorgio Torraca, suggeriva di operare limitando l’invasività in modo da non impedire interventi futuri». All’indagine storica si affianca quindi uno studio analitico corposo sulle componenti materiali. «Il rapporto con i manufatti oggetto di interventi fonde le scienze umane e quelle della natura, per quel che concerne l’attività intellettuale. Poi subentrano gli aspetti pratici, perché i fogli devono essere restaurati, la carta trattata, le lacune risarcite». Dunque non è corretta l’espressione “il restauro come scienza”? «Il restauro non è una scienza, sempre ammesso che esistano le scienze volgarmente definite “esatte”, ma una disciplina con un’importante aliquota di empiria. L’approccio essenziale alla conservazione rivela molti punti in comune con la medicina, soprattutto per la componente empirica, nel senso che ogni caso è da valutare a sé». Silvia Camisasca © RIPRODUZIONE RISERVATA Melania Zanetti è la restauratrice cui è stato affidato il testo ignaziano: «È stata una grande responsabilità In questo lavoro ci vuole tanta umiltà, ponendosi di fronte ad ogni opera come a un problema che non ha soluzioni univoche: l’opera stessa, se interrogata, fornisce risposte capaci di indirizzare e guidare l’intervento»
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