sabato 13 agosto 2022
Il grande scrittore francese conosceva il metodo di Morelli e Berenson per stabilire l’autore di un’opera e lo applicò a oggetti e personaggi dei suoi romanzi come un fine psicologo
Un'immagine di Marcel Proust

Un'immagine di Marcel Proust - .

COMMENTA E CONDIVIDI

Il comparativismo ha dominato il metodo storico-critico tra Ottocento e inizio Novecento, segnando sia la ricerca antropologica, sia lo studio delle religioni e delle mitologie. Accanto al pensiero positivista, era un modo per demitizzare il sapere ricevuto. Aby Warburg, dalla sua formazione in quell’ambito che unisce mitologia, antropologia, arte e religione, ha indagato sotto certe rappresentazioni iconografiche le tracce di arcaiche “sopravvivenze” dell’antico, trovando nelle tracce lasciate nei meandri della mente umana fin dai primordi la forza di gesti e attitudini che la cultura ha poi sublimato (e svilito) in sapere razionale. Warburg appartiene, per prendere una celebre definizione di Paul Ricoeur, ai moderni maestri del sospetto assieme a Marx, Nietzsche e Freud. E il cappuccino padre Giovanni Pozzi, grande filologo allievo di Contini e studioso del rapporto fra scrittura e immagini, definì appunto l’iconologia – la disciplina sviluppata dal metodo di Warburg – una «disciplina del sospetto».

Trovo quindi curioso che un saggio ricco di suggestioni riguardo ai rapporti fra i processi del conoscitore d’arte e quello attraverso cui Marcel Proust definisce la personalità dei protagonisti primari e secondari della Recherche, non faccia mai accenno – pur trattandone implicitamente a ogni pagina – allo strumento fondamentale che muove anche un connoisseur: l’etica del sospetto. Il saggio a cui mi riferisco è Come la bestia e il cacciatore. Proust e l’arte dei conoscitori dello storico Mauro Minardi edito da Officina libraria (pagine 150, euro 18) dove, appunto, si indaga come l’autore della Recherche abbia in qualche modo beneficiato nella sua arte della conoscenza di metodi come quello che rese celebre Giovanni Morelli nell’Ottocento, ripreso poi e trasformato da Bernard Berenson. Afferrare la sostanza profonda di un oggetto nei dettagli: è di Warburg anche l’aforisma che dice: «Dio si cela nel dettaglio».

Un ritratto del fondatore del metodo attribuzionistico Giovanni Morelli

Un ritratto del fondatore del metodo attribuzionistico Giovanni Morelli - .

Comunque sia, Morelli inaugurò un approccio alle opere d’arte mettendo a frutto i suoi studi di medicina e anatomia, professione, come ricorda Minardi, che non praticò mai, pur essendovi laureato, applicando all’arte ciò che aveva imparato, per esempio, dall’anatomia comparata di Georges Cuvier (grande innovatore che da pochi frammenti di «ossa erratiche» riuscì spesso a ricomporre intere anatomie). Morelli riconosceva la mano di un artista dalla presenza di dettagli tipici secondari: un lobo, un’unghia, la forma di un occhio o di una mano. «Quasi ogni pittore – spiegò – ha certe maniere abituali ch’egli mette in mostra e che gli sfuggono senza che egli se ne accorga ». Grazie a questa perspicacia restituì a Giorgione la Venere dormiente di Dresda guadagnando fama europea.

Riassumendo, Minardi scrive: «i tic identificano uno stile»; quindi cita Proust nell’incompiuto romanzo Jean Santeuil: «I nostri modi di dire abituali e il nostro modo di esprimerci in circostanze abituali rivelano il fondo del nostro carattere ». Si sommano in questa idea gli apporti del metodo scientifico, le coeve ricerche di Darwin, ma anche lo sviluppo della criminologia fondata sullo studio della fisiognomica che con Lavater era quasi assurta alla dignità di una scienza. Con Morelli, «ogni galleria studiata produce la sensazione di un museo criminale». Ma c’è dell’altro, che contrasta col metodo scientifico. In una lettera a Georges de Lauris a proposito di Ruskin Proust cita un brano da Mattinate fiorentine dove lo scrittore inglese confessa che alcuni lo hanno accusato di errori nell’attribuire a Giotto la tavola degli Uffizi poi assegnata a Lorenzo Monaco. E Proust conclude: può aver sbagliato qualche attribuzione, ma non nel cogliere la sostanza estetica giottesca. Il tema è centrale, perché il conoscitore d’arte, nella figura di Morelli, è un rabdomante che si affida al potere dell’occhio nel riconoscere le analogie dei dettagli. E qui entra in gioco Bernard Berenson, che dopo essersi agganciato a quel metodo – Mary Berenson, la moglie e sodale di studi, definì Morelli, «il Darwin della critica d’arte» –, arriva però a dire che spetta al conoscitore non soltanto l’onere dell’attribuzione ma, studiandone stile e componendone il catalogo, di delineare anche la personalità dell’uomo e dell’artista (cosa , per la verità, oggi un po’ disattesa fra gli attribuzionisti). L’artista, insomma, «non è un problema botanico ma psicologico».

Bernard Berenson e sullo sfondo la sua residenza I Tatti a Firenze

Bernard Berenson e sullo sfondo la sua residenza I Tatti a Firenze - .

Fra le lunghe descrizioni di oggetti, situazioni e personaggi che Proust ci presenta nella Recherche e l’atto intuitivo del conoscitore d’arte, il trait-d’union è appunto l’analogia indiziaria. Berenson confessò al filosofo Henri Bergson, che aveva conosciuto anche Proust, che il suo lavoro consisteva «nello scoprire e nello stabilire delle identità». La seconda parte del saggio cerca i riscontri di questa vicinanza fra conoscitori e scrittura proustiana. Ed è qui che entra in gioco la scuola del sospetto, sostanzialmente un metodo poliziesco e parascientifico, su cui scrisse pagine fondamentali Carlo Ginzburg. Ma proprio questo è un punto dirimente: si tratta di un sapere, non di una scienza esatta. E lo stesso Berenson lo dice: «Il senso della Qualità è senza dubbio la caratteristica essenziale di un aspirante conoscitore ». Ma la qualità non si dimostra, se non con un atto divinatorio. Il conoscitore come mago, indovino o negromante.

Può valere anche per Proust, che fa tesoro della sagacia psicologica con cui Balzac delinea i personaggi della Commedia umana. In pratica, come scrive Minardi, ogni attribuzione richiede «un atto di fiducia nel conoscitore ». Il verdetto è – appunto – un fatto incomunicabile. Forse è per questo che Longhi, grande sostenitore dei poteri dell’occhio, introduce l’ecfrasis per parlare analogicamente di un’opera. È un sapere indiziario – commenta Minardi – come quello a cui si affidano Balzac e Proust. E qui torna a farsi viva la questione fisiognomica che apre lo spazio originario, precivilizzato, quasi animale, in cui si muove l’indagine psicologica. In Dalla parte di Swann Proust scrive che la domestica Françoise «come gli uomini primitivi i cui sensi erano molto più acuti dei nostri, era capace di discernere immediatamente, da segni per noi impercettibili, qualsiasi verità volessimo nascondere». Scrivere per svelare il segreto.

D’altra parte, ricorda Minardi, per Balzac le scienze occulte meritavano un posto nel campo dell’antropologia. E il critico Kenneth Clark ricordò che Berenson «aveva l’abitudine di battere leggermente la superficie di un dipinto con un dito. Poi ascoltava intensamente come se aspettasse che una voce, quasi impercettibile, gli parlasse »; e Balzac ci fa vedere la veggente dare un «leggero colpetto sul dorso del rospo, che la guardò con aria d’intesa»... Questa somiglianza coi maghi però non piaceva a Berenson. Anche se nel profondo ci si specchiava. E Proust, che lo ammirò, lo segue su quella strada divinatoria. Scopo del meccanismo indiziario è, nella spietatezza dell’analisi proustiana, portare alla luce la menzogna (senza, immediatamente, farne una questione morale): confidenze, spionaggio, curiosità sono mezzi di questa conoscenza.

Se il cugino Pons, compulsivo collezionista, si alimenta della passione per l’arte di Balzac, così Charles Swann avrà «una “cotta” per gli oggetti antichi e la pittura» (come Proust). Il testimone passa, fin dal primo volume della Recherche, da Balzac a Proust. Swann amava particolarmente Vermeer, e questo ci conduce all’episodio della morte di Bergotte davanti alla Veduta di Delft intento a recitare una litania sul dettaglio del «piccolo lembo di muro giallo» (Proust vide per la prima volta il quadro nel 1902 e lo considerava «il più bello del mondo»). Sodoma e Gomorra, eterosessualità e omosessualità, borghesia e nobiltà, tenerezza e crudeltà sono coppie polari che ritmano le pagine della Recherche, scrive Minardi. Ma, in definitiva, è il processo di maturazione esistenziale di Proust a farsi letteratura, utilizzando – come Balzac – la propria esperienza del genere umano.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: