sabato 6 settembre 2014
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I morti sono arrivati in città. Più simili ad animali che a esseri umani, si cibano di rifiuti e si accampano in edifici abbandonati. Tocca a Pontus Beg, commissario della polizia cittadina, risolvere il caso. Scoprirà che quelle creature fameliche e ischeletrite sono migranti mancati, vittime di trafficanti che li hanno abbandonati con l’inganno nella desolazione della steppa. Siamo da qualche parte, ai confini dell’estinto impero sovietico. Siamo tra le pagine di Questi sono i nomi (traduzione di Claudia Cozzi e Claudia Di Palermo, Iperborea, pagine 326, euro 17), il romanzo dell’olandese Tommy Wieringa che il pubblico del Festivaletteratura ha salutato come un capolavoro. Una riscrittura dell’Esodo nella quale sono coinvolti non solo i profughi dispersi nel deserto, ma anche lo stesso Beg, che con l’aiuto di un vecchio rabbino si sta confrontando con il mistero delle proprie origini ebraiche. «Ogni mio libro parte da una domanda di cui non conosco la risposta - dice Wieringa -. È un tentativo di essere veritiero che richiede un grande sforzo, ma non sarei capace di scrivere diversamente. In questo caso mi sono ritrovato a procedere di frase in frase, quasi imitando i passi stentati dei miei personaggi nella loro peregrinazione».Nonostante tutto, però, il loro è un cammino di salvezza.«Sì, anche se si potrebbe descrivere Questi sono i nomi come un’avventura di stampo medievale, con un ragazzo che monta a cavallo per esplorare il mondo. Ma ogni viaggio deve avere una conclusione e questa meta, per me, è rappresentata dalla saldatura fra le due trame che, fino a un certo punto, sembrano scorrere in parallelo. Tutto cambia quando Beg incontra il più giovane fra i sopravvissuti alla tragedia e decide di essere un padre per lui. Il richiamo a Mosè è molto evidente e per questo sono stato anche criticato. Non importa: senza questo piano simbolico l’intero libro, per me, non avrebbe alcun senso».Come mai ha fatto di Beg un ebreo inconsapevole?«Perché mi sembrava il più forte tra i contrasti possibili. Un uomo ormai avanti negli anni, che ha sempre vissuto disinteressandosi della religione, scopre di appartenere al popolo eletto. Non può non esserne turbato, non può impedire che una rivelazione così straordinaria trasformi radicalmente la sua vita».Nel libro ci sono molti altri riferimenti religiosi.«Il più rilevante è quello alla teoria del capro espiatorio, elaborata dal filosofo René Girard. Nella loro disperazione i profughi stabiliscono che uno di loro è l’origine di tutte le sventure, ne fanno un mostro, lo uccidono e alla fine lo venerano come una specie di santo. La vittima prescelta è un personaggio che ho incontrato per la prima volta in Ebano di Ryszard Kapuscinski, un etiope che si era messo in marcia verso est perché, diceva, quella era la direzione in cui si era incamminato suo fratello. Mi piace pensare che, un passo dopo l’altro, quell’uomo sia arrivato nel mio romanzo».Per quale motivo ha ambientato il libro in una delle ex repubbliche sovietiche?«Lo spunto viene da un fatto di cronaca accaduto tempo fa in Ucraina. C’era, anche in quel caso, un gruppo di profughi disperso nel nulla. La truffa che avevano subito seguiva, in effetti, le procedure in uso durante la Guerra Fredda, quando il Kgb costruiva finti posti di frontiera per dare ai dissidenti l’illusione di trovarsi già in Occidente. Oggi i trafficanti fanno lo stesso, solo che a muoverli non è più l’ideologia, ma un mero calcolo economico. In quell’episodio, inoltre, c’era un particolare impressionante».Quale?«Durante la loro fuga quelle persone avevano custodito un cadavere ormai mummificato. Era una circostanza che mi faceva pensare, appunto, all’esodo del popolo di Israele, che attraversa il deserto portando con sé le ossa del patriarca Giuseppe. La connessione dall’ebraismo è nata da lì».Si è anche documentato sul campo?«Sì, per una settimana mi sono fatto guidare dai cosacchi lungo la frontiera tra Russia e Ucraina. La formazione alla quale mi ero unito era decisamente favorevole all’ingresso del Paese nell’Unione Europea, ma so di altri cosacchi che si sono invece schierati a favore di Putin. Il punto, in ogni caso, non è questo».In che senso?«Buona parte della popolazione ucraina è caratterizzata da un fondo di anarchia che si finisce per sperimentare di continuo. La corruzione, per esempio, è molto diffusa, a ogni livello dell’amministrazione pubblica. I miei amici cosacchi si entusiasmavano all’idea di diventare europei a pieno titolo, ma non avevano alcuna intenzione di rivedere i loro valori morali. E questo, sinceramente, è un problema tutt’altro che trascurabile».
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